In tempi di tesoretti spariti, di budget ridotti, di soldi da trovare, si riaffaccia periodicamente la questione della redditività della cultura. Con la cultura si può mangiare o la si deve sempre considerare come una fastidiosa palla al piede di cui cercare di alleggerirsi come si può?

Due esempi toscani recenti danno la misura degli estremi opposti della questione. Il primo maggio a Pisa l’apertura straordinaria del cantiere delle navi romane, ritrovamento di meno di una ventina d’anni fa definito dall’allora ministro della cultura, Giovanna Melandri, una Pompei marittima, ha suscitato un vespaio di polemiche. In effetti il sito è unico, perché i reperti – navi in ottimo stato di conservazione, anfore con ancora il contenuto delle merci trasportate, cordami vari, reperti umani ecc. – testimoniano i commerci, le tecniche marinare, l’economia di oltre duemila anni fa. Ma questa risorsa dal punto di vista dell’economia non serve a niente. I cinquecento turisti che sono arrivati per l’occasione si sono trovati davanti a un paesaggio desolante: ingresso trasandato e sporco, navi coperte da teli, mancanza di organizzazione nella gestione delle visite. A Pisa i turisti vanno per la Torre, e tanto basta: restano poche ore e fuggono verso mete più ricettive. Perfino il sito web del cantiere è di fatto spento. Insomma una risorsa che potrebbe portare ricchezza viene sprecata, a dare l’idea che la cultura è davvero un peso. Forse sarebbe stato meglio non ritrovare questo tesoro archeomarittimo.

Più o meno in contemporanea, su un altro “set”, a Palazzo Strozzi di Firenze, si è presentato il report annuale relativo ai dati del 2014. Bilancio in ordine, con 7 milioni di spese e 7,2 milioni di entrate (quindi con un utile non trascurabile), ma soprattutto un dato eloquente: l’indotto portato alla città dall’attività espositiva di Palazzo Strozzi si è attestato a 61 milioni, cioè oltre otto volte il bilancio della Fondazione. Anche Firenze ha la sua “Torre”: i turisti vanno a Firenze comunque, a prescindere da Palazzo Strozzi: ci sono gli Uffizi, Palazzo Pitti, l’Accademia. E poi il centro storico, la cucina toscana, il paesaggio delle colline, Fiesole ecc. Tuttavia come fare per far tornare i turisti a Firenze? E come fare per svecchiare l’immagine di Firenze, per non farla considerare soltanto una grandiosa testimonianza un po’ museificata del passato? E’ così che Palazzo Strozzi è diventato una realtà dinamica: le grandi mostre spaziano dall’arte antica all’arte del ‘500 fino al contemporaneo; allo spazio espositivo maggiore si affiancano altri spazi, come la Strozzina o il Cortile, più adeguati alla sperimentazione. Anche questo è un cantiere, ma un cantiere più virtuoso, un cantiere di idee e di cultura che si trasforma in economia. Mentre il contributo pubblico diminuisce (dei 7 milioni di entrate circa 2 sono pubblici), Palazzo Strozzi “restituisce” all’economia della città un ricco patrimonio di decine di milioni, costituito da tutti quei visitatori che vengono, o più spesso tornano, a Firenze solo per le occasioni create da questa macchina culturale. Un piccolo Beaubourg fiorentino che può ancora crescere.

Non potrebbe esserci miglior “traduzione” plastica di quella offerta dalle due mostre ospitate in questo periodo nel Palazzo, due mostre di scultura che – a dispetto della “pesantezza” della materia – danno l’idea della vita e del “movimento” della scultura. La prima mostra, Potere e pathos. Bronzi del mondo ellenistico, splendida e recentemente arricchitasi di un vero gioiello come il Pugile delle Terme proveniente dal Museo Nazionale Romano (ma un altro pezzo arriverà il 15 maggio dal Museo del Bardo di Tunisi, quello recentemente assalito dai terroristi dell’Isis), è dedicata ai bronzi di quell’epoca in cui il dinamismo anima la scultura. Grazie alla maggior flessibilità del bronzo, le statue ellenistiche rappresentano le figure più nel loro agire e negli effetti del loro agire che nel loro essere: dalle torsioni che muovono la figura del pugile al ritratto di Eracle in riposo, dalla statuetta di un artigiano all’Eros dormiente, tutto dà l’idea di un’energia che percorre e vivifica la materia, e produce un effetto di maggior naturalismo. C’è una vita delle sculture, e del resto anche l’avventura che le ha portate al loro stato attuale lo dimostra. Sono opere che per un miracolo – il naufragio della nave che le trasportava, un interramento ecc. – sono sfuggite alle fusioni fatte nei secoli spesso per motivi bellici, e sono rinate dopo i loro ritrovamenti, anche recentissimi. E questo percorso ha lasciato tracce, buchi, vuoti: spesso le mancanze sono più eloquenti e attraenti delle presenze (basta pensare alla Nike di Samotracia), perché evocano il possibile, lo stato transitorio della materia Non a caso la mostra si apre con il pezzo forse più emozionante perché più vuoto: una base in pietra firmata da Lisippo, di cui si è persa la statua che la sormontava.

L’altra mostra, dedicata al contemporaneo e capace di fungere simbolicamente da pendant alla prima, si intitola Anche le sculture muoiono. Il titolo deriva dall’omonimo film di Chris Marker e Alain Resnais del 1953 dedicato all’arte africana. Qui le opere danno l’idea di un cantiere perenne, di una trasformazione continua, di una capacità della scultura di rappresentare, direttamente o evocativamente, la vita e la morte più e meglio dell’eternità. E anche di una fragilità della scultura, che oggi c’è e domani chissà. Più che il valore della durata questa scultura talvolta prossima all’installazione esprime il valore della testimonianza. “Un oggetto è morto quando lo sguardo vivo che si è posato su di esso è scomparso”, recita il film di Marker e Resnais. La sfida della scultura oggi sembra quella di rigenerare continuamente gli sguardi che vi posano per ravvivarne la dinamica e liberarne l’energia. Anche i centri diffusori di cultura dovrebbero sapere assumere su di sé la medesima sfida.

Oliver Laric
Oliver Laric

 

Francesco Arena
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