Lo sconquasso prossimo venturo degli affari audiovisivi italiani lo sta preparando Netflix, il distributore californiano di show, film e telefilm via internet che già serve 60 milioni di famiglie in 50 Paesi e sarà disponibile anche da noi, a quanto si dice a ottobre. A Netflix ci si iscrive, come a una pay tv, anche se costa meno (un centinaio di euro per anno). Ma mentre dalla pay tv otteniamo un fascio di canali, con Netflix abbiamo il diritto di pescare titoli nel catalogo on line. A frenare la novità c’è da noi la insufficienza della banda larga, ma anche l’ostilità degli attuali broadcaster. Chi tifa per il prossimo venuto sono i compenso i produttori di film, serie eccetera, che non vedono l’ora di trovare un nuovo forno dopo tanto monopolio. E anche perché la forza di Netflix è di non costare un granché, né al consumatore né al produttore dei film giacché con poche persone (189 in pianta stabile nel 2014) fattura a oggi 6 miliardi di dollari trattenendo per sé, fra guadagno e spese, non più del 25% degli incassi. Il resto sono soldi che vanno ai proprietari dei diritti sui programmi

Aggiungiamo, a incoraggiare l’impresa, l’entusiasmo delle compagnie telefoniche che proprio dal traffico di video (gli Usa insegnano) si aspettano una forte spinta agli abbonamento alla larga banda. E così capiamo perché dalle parti di Murdoch, di Mediaset Premium e, in genere, di chiunque offre canali a pagamento ci sia il cartello “lavori in corso” a indicare la necessità di riposizionarsi in un futuro assai cambiato rispetto al passato che li ha formati.

E la tv generalista, la nonna del sistema tv? Che ne sarà di lei? Ci viene da pensare che tutto sommato potrebbe avere una nuova opportunità perché i cataloghi on line toglieranno di mezzo gran parte dei mini flussi di nicchia, a pagamento e non, che le erodono spazio. Nel contempo risulteranno più nitidamente diversificate le due fondamentali modalità del consumo: l’affacciarsi su flussi o il ricercare prodotti. La prima è il quid servito dal generalismo, il secondo è il cliente dei mini canali, della pay e, ancor più, del catalogo in cui si rovista e non si fa zapping. Sono due modalità complementari, che non non si intralciano a vicenda così come sedersi al caffè a guardare il passeggio non impedisce di entrare poco dopo in un supermercato.

Alle diversità strutturali fra “scegliere” e “contemplare” (lo stesso zapping non è scegliere nel senso che stiamo dando alla parola, ma fare surf fra i canali) corrispondono due diversi elementi di forza sotto l’aspetto editoriale: per i canali è l’assortimento, per i canali l’identità, cioè l’assegnazione all’emittente da parte del consumatore di una personalità coerente, che ne contestualizza tutti i contenuti.

E qui, insieme con l’opportunità per le varie Rai, Mediaset e La7, c’è la sfida perché l’identità non la metti insieme ri-producendo roba acquistata in giro o pensata fuori dal tuo management, ma esprimendo quel che la tua azienda, in quanto “comunità culturale”, è capace di spremere dal proprio specifico cervello collettivo. Solo così il pubblico arriva a conoscerti ed è spinto ad aspettare quello che gli hai apparecchiato giorno per giorno e sera per sera.

Così, appunto, il generalismo italiano potrebbe cogliere l’opportunità di un insediamento anche più solido dell’attuale. A patto che l’arteriosclerosi di trent’anni di duopolio non abbia prodotto danni irreparabili.

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