C’è voluta una domenica di tardo pomeriggio e il nostro starcene stremati e indifesi davanti al televisore manovrato da mani altrui per farci imbattere in un reality dedicato al varo di veri matrimoni. Non alla semplice predisposizione al “sì”, ma proprio alla pronuncia dell’effettivo sì, con tanto di vere firme e promesse di fedele unione, tra coppie arruolate messe insieme da un pool di psicologi e che cercano di entrare in confidenza, mentre già incalzano cerimonia, pranzo e letto nuziale.

Rispetto ai tanti programmi di dating qui si butta il cuore oltre l’ostacolo: prima ci si sposa e poi, a seconda di come si reagisce, si capisce se quell’accoppiamento funziona oppure no. Questa è la regola del gioco: prima ci si sposa e poi si scopre se le circostanze creino l’amore, anziché procedere in senso inverso. “Matrimoni combinati”, insomma, che sfidano i “matrimoni d’amore” fermo restando il divorzio come clausola di uscita dai wedding games. La clausola che non esisteva vari decenni fa, quando si sposavano le nostre nonne, assi spesso senza conoscere lo sposo e imbarcandosi dalle più o meno solide basi materiali piuttosto che spinte da slanci sentimentali.

E mentre stavamo lì a sentire dei dubbi e delle speranze in prossimità dell’obbligato passo, ci chiedevamo perché anziché passare a un film d’azione (a costo di mettere in crisi – e proprio l’8 di marzo – il nostro matrimonio) siamo restati a guardare queste prove di menù nuziali e abiti da sposa, di confidenze di quasi ex scapoli, di pareri di amici e parenti che scommettono sulla capacità di “trovarsi” dei due prescelti sposi. Perché mai, ci siamo domandati l’insieme non ci pareva semplicemente fuori dal mondo, come un Salvini in marcia sul ponte di Selma?

Pensa che ti ripensa, siamo arrivati a concludere che a tenerci desti era la “persistenza della riferibilità”, il meccanismo acchiappa – attenzione che specificamente funziona per i reality un po’ come per la fiction agisce invece la “sospensione della incredibilità” (tant’è che arriviamo ad appassionarci alle avventure dell’Uomo Ragno).

Nel caso dei matrimoni combinati dagli psicologi, la riferibilità opera a due livelli. Il primo livello è quello del window shopping, cioè dell’osservare merci attraenti senza doverle comprare. E qui basta e avanza l’assortimento degli abiti da sposa (quattro per quattro coppie in cantiere), l’arredo (senza risparmio e pagato dalla produzione) dei luoghi deputati, la cristalleria dei ricevimenti, gli abiti – ma anche le facce – dei parenti e degli amici, i dettagli della camera da letto, quando i due vanno al collaudo supremo (preparandosi dinanzi all’operatore che, modello Isola dei Famosi, ne cattura le ansie (molto intense) e le brame (assai più dubbie).

Il secondo livello è il de te fabula narratur, il si parla di te che rintocca in chiunque quando in un modo o nell’altro sente parlare di sé, sia pure di rimbalzo, attraverso personaggi e situazioni paradossali.

Eccoli qui i due infaticabili motori del reality e i responsabili dell’alluvione del genere in tv. Anche se, ove mai fosse possibile, il vero reality da sbirciare sarebbe quello delle facce e dei commenti delle coppie spettatrici. Anche se tutto sommato basterebbe uno specchio sopra il televisore.

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