E’ pari a circa 350 milioni di euro, l’incasso complessivo del cosiddetto compenso per copia privata realizzato dalla Siae tra il 2010 ed il 2014. Un importo destinato ad sfondare la soglia dei 450 milioni di euro ed a sfiorare quella dei 500 milioni alla fine del 2015, grazie ai sensibili aumenti delle tariffe, disposti lo scorso anno dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali. E’ una montagna di soldi dragati dall’industria tecnologica e digitale e, soprattutto, dalle tasche dei consumatori e finita prima nei forzieri della Siae e, quindi, destinata a confluire secondo dinamiche che, purtroppo, restano niente affatto trasparenti, ai titolari dei diritti ovvero ad autori ed editori.

In un contesto di questo genere e davanti a numeri tanto rilevanti la replica della Siae, di sabato scorso, al mio post di qualche giorno fa, lascia davvero senza parole. Nel post all’origine della replica della Siae, scrivevo – sentenza alla mano – che la Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sua decisione del 5 marzo ha messo nero su bianco che la legittimità di una disciplina nazionale in materia di copia privata è subordinata alla circostanza che essa preveda un effettivo meccanismo di esenzione e rimborso per chi acquista smartphone, tablet, pc o supporti idonei alla registrazione per utilizzarli in una dimensione professionale.

Ed aggiungevo che, a mio avviso – ma le colonne dei giornali, naturalmente, non sono aule di tribunale – questo non avviene in Italia dove Siae incassa, in maniera indiscriminata, un fiume di denaro anche laddove non esista dubbio alcuno sulla circostanza che i dispositivi e supporti saranno utilizzati in ambito professionale, come accade allorquando a comprare sono le amministrazioni dello Stato, società ed associazioni che, in quanto tali, non hanno diritto a fare alcuna copia privata e liberi professionisti.

Nel replicare Siae – e la circostanza non sorprende visto che nel 2015 gli incassi da copia privata rappresenteranno una delle voci più rilevanti del suo intero bilancio – riferisce che, al contrario, la sentenza della Corte avrebbe confermato la piena legittimità della disciplina italiana e che nel nostro Paese vige un sistema efficace ed effettivo di esenzioni e rimborsi degli importi versati in più a titolo di cosiddetto compenso per copia privata. Parole, parole, parole, vien da dire – prendendo in prestito quelle delle celebre canzone di Mina – per coprire l’accumulo di un tesoretto da centinaia di milioni di euro.

Naturalmente non è così. La Corte di Giustizia dice in modo inequivoco che un sistema come quello italiano ovvero che anziché prelevare dai singoli utilizzatori di dispositivi e supporti, preleva alla fonte – ovvero da chi vende i dispositivi soggetti a compenso – è legittimo solo laddove preveda puntuali esenzioni per chi acquista supporti e dispositivi non destinati ad essere utilizzati per riprodurre contenuti coperti da diritto d’autore ed un sistema di rimborsi efficace ed effettivo per chi paga ciò che non dovrebbe pagare. E il sistema di esenzioni e rimborsi all’italiana è tutt’altro che efficace ed effettivo con la conseguenza che la sentenza, lungi dal “benedirlo”, anche se solo indirettamente, lo mette “fuori legge”. Quelle della Siae, dunque, son solo parole, parole, parole – prendendo in prestito quelle delle celebre canzone di Mina – usate per coprire l’accumulo di un tesoretto da centinaia di milioni di euro.

Ma il punto non è questo. Il punto è che mentre il contenuto di una sentenza magari può anche essere opinabile, l’efficacia e l’effettività di un sistema di esenzione e rimborsi è, viceversa, qualcosa di misurabile su base quasi scientifica. Ed allora ciò che lascia senza parole è che Siae non usi neppure un numero per dimostrare la bontà delle sue affermazioni. Eppure ne basterebbero davvero pochi. Basterebbe, ad esempio, che Siae – squarciando, almeno per una volta, la nebbia che avvolge da decenni la sua sede – pubblicasse i dati relativi all’ammontare dei rimborsi ai quali ha proceduto dal 2010 ad oggi. Quanti degli oltre 350 milioni di euro sin qui incassati a titolo di copia privata sono stati rimborsati alle amministrazioni dello Stato, ai liberi professionisti ed alle società che si son visti costretti a pagare decine di milioni di euro non dovuti in ragione del sistema di prelievo previsto nella disciplina italiana? Quante richieste di rimborso e per quali ammontare complessivo la Siae ha ricevuto dal 2010 ad oggi? Quante convenzioni per l’esenzione dall’obbligo di versamento del compenso per copia privata Siae ha firmato?

Si tratta, davvero, solo di una manciata di numeri che, tuttavia, chiarirebbero, una volta per tutte, se l’attuale sistema di esenzione e rimborsi è efficace ed effettivo come vuole la Corte di Giustizia dell’Unione europea o se, invece, garantisce a Siae, almeno nella sostanza, l’opportunità di trattenere nelle proprie casse più di quanto avrebbe dovuto entrarvi.

Navigando nelle pagine del sito della Siae dedicato alle procedure di esenzione e rimborso degli importi versati a titolo di copia privata, ad esempio, lascia di stucco leggere che le amministrazioni dello Stato anziché essere ricomprese nell’elenco dei soggetti esentati dall’obbligo di pagamento di ogni compenso, sono in quello dei soggetti che possono chiedere il rimborso. Si presume, ovviamente, che un’amministrazione non compri uno smartphone, un tablet o un Pc per ascoltare musica e, quindi, non si capisce davvero perché dovrebbe ritrovarsi costretta a chiedere un rimborso, anziché essere esentata da qualsivoglia obbligo di pagamento.

E’ chiedere troppo leggere qualche numero? E il Ministero dei Beni e delle Attività culturali ha mai chiesto a Siae questi numeri? Se sì, conoscere la risposta ricevuta, aiuterebbe a fare chiarezza su una vicenda che pur continuando ad essere gestita come una questione tra pochi, interessa, invece milioni e milioni di cittadini, imprese, professionisti ed amministrazioni dello Stato.

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