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Bologna, licenziate dopo uno sciopero. Cinque commesse: “Lotteremo”

Sono state lasciate a casa dall’azienda per ragioni disciplinari dopo aver protestato contro le condizioni di lavoro. "Noi procederemo per vie legali, perché è giusto che le lavoratrici abbiano ciò che gli spetta" spiega Stefania Pisani della Filcams di Bologna
Bologna, licenziate dopo uno sciopero. Cinque commesse: “Lotteremo”
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Licenziate per aver scioperato contro il lavoro precario. Si è conclusa con una lettera di licenziamento l’esperienza lavorativa di Caterina e delle sue colleghe, commesse nel punto vendita Alcott di via Ugo Bassi a Bologna, finché, in seguito a uno sciopero indetto il 20 dicembre scorso, sono state lasciate a casa dall’azienda per ragioni disciplinari. Per aver, appunto, protestato davanti alle vetrine del negozio, durante il periodo natalizio, contro le condizioni lavorative a cui erano sottoposte, tutte precarie a tempo determinato o con contratto di apprendistato. “Parliamo di stipendi pagati in ritardo – racconta Caterina, che con le ex colleghe ha intenzione di intraprendere un’azione legale nei confronti dell’azienda – di straordinari che puntualmente non ci venivano retribuiti, della mancanza di sicurezza nel punto vendita, dell’obbligo di svolgere mansioni che non erano previste dal nostro contratto, e che ci costringevano spesso a lavorare fino a tardi, fino alle dieci o alle undici di sera, sempre non pagate, ovviamente. E questo solo per fare qualche esempio”.

Le cinque ex commesse, quindi, avevano deciso, tramite la Cgil, di chiedere un incontro con l’azienda, in vista della scadenza del loro contratto, che sarebbe scattata il 31 dicembre scorso, per chiedere qualche garanzia. “In risposta, Alcott ha mandato a Bologna il suo consulente del lavoro – continua Caterina – che però non aveva nemmeno una delega da parte dell’azienda. Una perdita di tempo, quindi, visto che non poteva offrirci alcunché”. “Di conseguenza – spiega Stefania Pisani della Filcams di Bologna – abbiamo confermato lo stato di agitazione, annunciando lo sciopero delle lavoratrici del punto vendita, cinque, tutte precarie, per il 20 di dicembre”. A quel punto, però, l’azienda decide di mettere in ferie forzate le cinque commesse, “un provvedimento che di fatto tentava di negare il loro diritto a scioperare”, precisa Pisani, a cui è seguita una lettera di contestazione disciplinare. “Nel documento – ricorda Caterina – l’azienda minacciava di chiederci un risarcimento per il danno di immagine causato a Alcott con la nostra protesta”. Infine, a contratto già scaduto, sono arrivate anche le lettere di licenziamento.

“Noi procederemo per vie legali, perché è giusto che le lavoratrici abbiano ciò che gli spetta – spiega Pisani – spero però che Bologna decida di sostenerle in questa battaglia, che non riguarda solo le cinque ragazze licenziate da Alcott, ma tantissimi lavoratori, giovani e non, che troppo spesso si trovano costretti ad accettare qualsiasi forma di sfruttamento pur di conservare un impiego”.

La battaglia di Caterina e delle sue colleghe, in realtà, un effetto l’ha già avuto. “Chi lavora ancora per Alcott ci ha raccontato, in forma anonima, che sono state assunte più persone, riducendo così il carico di lavoro per ogni commesso, e che sono arrivati i primi contratti a tempo indeterminato, quando fino a dicembre in negozio eravamo tutti precari a dispetto da quanto previsto dal contratto collettivo nazionale – spiega Caterina – e questo ci fa molto piacere, perché significa che siamo riuscite a lavorare per gli altri. Per noi, tuttavia, la situazione non è facile”.

Se due delle cinque ex commesse di Alcott sono riuscite a trovare un impiego altrove, c’è anche chi, il prezzo di quello sciopero, continua a pagarlo. E non solo attraverso la disoccupazione. “Una di noi qualche giorno fa ha sostenuto un colloquio di lavoro, ed è stata riconosciuta come una delle manifestanti dello sciopero di Natale – continua Caterina – il che è triste, perché noi non siamo scioperanti di professione che non vogliono lavorare, ma solo ragazze che hanno deciso di lottare per rivendicare i propri diritti. Ci sono troppe aziende in Italia che sfruttano i lavoratori e si arricchiscono sul loro sudore, sulla loro fatica. Ma andare a lavorare non dovrebbe significare sottoscrivere un contratto di sottomissione. È un diritto e un dovere, che però deve prevedere condizioni lavorative ed economiche dignitose”.

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