Milano, 4 dic. (Adnkronos Salute) - Il mieloma si può combattere anche a tavola. Uno nuovo studio internazionale guidato dal gruppo di Matteo Bellone, responsabile dell'Unità di Immunologia cellulare dell'Irccs ospedale San Raffaele di Milano, e da Urvi A. Shah, ematologa-oncologa del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, suggerisce che "una dieta ricca di fibre e basata su alimenti vegetali può modificare" in positivo "alcuni dei meccanismi biologici in grado di ritardare la progressione verso il mieloma multiplo". Gli autori del lavoro, pubblicato su 'Cancer Discovery', indicano che "intervenire sull'alimentazione può trasformarsi in un 'interruttore biologico' capace di influenzare metabolismo, immunità e flora batterica intestinale".
"Per la prima volta abbiamo dimostrato che un intervento nutrizionale strutturato può incidere sui meccanismi alla base della progressione del mieloma", spiega Bellone. "La maggior parte dei pazienti che presentano condizioni pre-mielomatose - aggiunge Shah - vengono semplicemente monitorati e questo può generare molta ansia. Il nostro studio è il primo a dimostrare che un'alimentazione ricca di fibre e prevalentemente vegetale può migliorare la salute dell'intestino, il metabolismo e la funzione immunitaria in questi pazienti, e potrebbe contribuire a rallentare la progressione verso il mieloma. Sapere che un semplice cambiamento alimentare a basso rischio può fare la differenza può essere davvero incoraggiante.
Il mieloma multiplo - ricordano dall'Irccs del Gruppo San Donato - è un tumore del sangue che colpisce ogni anno più di 160mila persone nel mondo e circa 5mila in Italia. Quasi sempre nasce da due condizioni precancerose, Mgus (gammopatia monoclonale di significato incerto) e Smm (mieloma multiplo asintomatico), che interessano oltre il 5% della popolazione sopra i 50 anni. Sono stati definiti 'stati di attesa biologica' perché non provocano sintomi, ma possono evolvere nel corso degli anni in un mieloma conclamato. Capire come rallentare questa evoluzione è una delle sfide più urgenti della ricerca ematologica. Già nel 2018 il gruppo di Bellone aveva firmato una delle prime scoperte che collegavano il microbioma intestinale alla progressione del mieloma. All'epoca, lo studio mostrò come determinati batteri fossero in grado di alimentare processi infiammatori e immunitari che accelerano la malattia. Quel lavoro ha gettato il seme per l'intero filone di ricerca: "Se il microbioma può spingere la malattia in avanti, forse può anche frenarla", è l'intuzione da cui è nato il nuovo studio che ha visto scienza clinica e biologia sperimentale convergere su un'unica domanda: può la dieta diventare uno strumento terapeutico?
La sperimentazione clinica denominata 'Nutrivention', monocentrica e a braccio singolo, guidata da Shah al Memorial Sloan Kettering, ha coinvolto 23 persone con Mgus e Smm e con un indice di massa corporea elevato, che per 12 settimane hanno seguito una dieta ricca di fibre e a prevalenza vegetale senza alcuna restrizione calorica. L'obiettivo non era mangiare meno, ma mangiare diversamente, privilegiando frutta, verdura, legumi, cereali integrali. Contrariamente a quanto ritenuto finora - sottolineano gli autori - lo studio ha dimostrato che una dieta ricca di fibre non solo è sostenibile, ma provoca anche fastidi limitati e ben tollerati. Un risultato che ha convinto oltre il 70% dei pazienti a proseguire il nuovo regime dietetico ben oltre le 12 settimane.
I dati, ottenuti grazie anche a un diario alimentare compilato dai partecipanti allo studio - riferisce una nota del San Raffaele di Milano - hanno mostrato che, gradualmente, l'organismo sembra tirare il freno. Il peso corporeo si riduce, la sensibilità insulinica migliora, l'infiammazione si attenua e la flora batterica si arricchisce di specie capaci di produrre butirrato, una molecola nota per le sue proprietà antinfiammatorie e antitumorali. Anche se lo studio non era disegnato per fornire informazioni sull'andamento della malattia, negli 8 pazienti valutabili per questo parametro la traiettoria della componente monoclonale (M-spike), il principale indicatore di progressione da una condizione precancerosa a una di mieloma multiplo, si è stabilizzato e in 2 pazienti è addirittura migliorato. "E' come se la malattia, abituata a correre lentamente, ma inesorabilmente, avesse trovato un ostacolo imprevisto sul percorso", commenta Bellone.
Il cuore della ricerca guidata dallo scienziato - svolta principalmente da Laura Cogrossi, all'epoca dello studio dottoranda all'università Vita-Salute San Raffaele e ora al Cancer Research UK Manchester Institute - è stato non solo mostrare che la dieta di per sé cambia i parametri clinici associati con la progressione della malattia, ma anche spiegare perché lo fa. Nei laboratori del San Raffaele i ricercatori hanno alimentato dei modelli murini con una dieta ad alto contenuto di fibre e monitorato nel tempo ciò che accadeva nel loro organismo. Hanno così osservato che la dieta ricca di fibre ha modificato la composizione del microbioma intestinale dei topi, aumentando in particolare la produzione di acidi grassi a catena corta come il butirrato. Queste molecole hanno ridotto l'aggressività della malattia nel modello animale, mentre hanno rallentato la proliferazione delle cellule tumorali in coltura, un modello in vitro della patologia. La dieta ha inoltre rimodellato le caratteristiche delle cellule immunitarie nel midollo osseo (sede d'origine del mieloma multiplo) degli animali, reindirizzandole verso un'azione potenzialmente antitumorale. Grazie a questi cambiamenti, nei topi l'evoluzione verso il mieloma conclamato veniva drammaticamente posticipata.
Analizza Bellone: "E' come se il microbiota, riprogrammato dalla dieta, avesse modificato l'intero microambiente tumorale, rendendolo meno favorevole alla proliferazione delle cellule di mieloma e più capace di sostenere una risposta immunitaria efficace. Una possibile spiegazione è che le molecole come il butirrato, prodotte dai batteri intestinali con la fermentazione delle fibre, abbiano raggiunto il midollo osseo dove potrebbero aver reindirizzato il comportamento delle cellule immunitarie verso un'azione antitumorale e rallentato la proliferazione delle cellule maligne. Una sorta di effetto a cascata: dal cibo al microbioma, dal microbiota al sistema immunitario, dal sistema immunitario al tumore".
Alla luce di questi risultati si aprono nuovi orizzonti: studi clinici più ampi, interventi personalizzati e possibili combinazioni tra dieta e terapie già esistenti. Quello suggerito dai ricercatori "è un approccio che non sostituisce i trattamenti oncologici - puntualizzano - ma potrebbe affiancarli, accompagnarli e persino potenziarli, agendo su un terreno biologico spesso trascurato: lo stile di vita". In questo contesto è stato attivato in Italia un nuovo studio clinico multicentrico, di cui il San Raffaele è capofila con Tommaso Perini dell'Unità di Ematologia e Trapianto di midollo osseo, per ampliare e corroborare i risultati del lavoro. Il progetto si inserisce nel quadro delle attività del Comprehensive Cancer Center del San Raffaele, che integra ricerca, clinica e innovazione tecnologica per accelerare la traslazione dei risultati scientifici ai pazienti. Con il nuovo studio, sostenuto da Fondazione Airc per la ricerca sul cancro, gli scienziati si propongono di dimostrare che diete a base vegetale alterano significativamente il microbiota intestinale, aumentando la produzione di acidi grassi a catena corta nei pazienti con Smm, a prescindere dal peso corporeo.
"Il nostro obiettivo - conclude Bellone - è trasformare un gesto quotidiano, come mangiare, in uno strumento di prevenzione scientificamente solido. E' una strada che richiede rigore, ma che può cambiare la qualità e la prospettiva di vita di migliaia di persone". La ricerca pubblicata su 'Cancer Discovery' è stata supportata, oltre che dall'Airc, anche da Blood Cancer United, Paula and Rodger Riney Foundation, National Institutes of Health - Nih, Parker Institute for Cancer Immunotherapy, International Myeloma Society, Swedish Research Council, e da ulteriori fondi istituzionali e collaborazioni accademiche internazionali.
Nel salotto di casa nostra possono accadere ogni giorno mille situazioni diverse. Situazioni che, per convenzione, chiamiamo “domestiche” e ci conducono a pensare a piccoli e grandi fatti quotidiani, che parlano di famiglia, d’affetto, di liti da niente, al limite di solitudine davanti alla tv. Il salotto della maggior parte delle case degli italiani, verso l’una, sa di odore di pranzo e sottofondo di telegiornale. Il 22 febbraio 1980, nel salotto di casa sua in Via Monte Bianco 114 a Roma, all’ora di pranzo il 19enne Valerio Verbano veniva ucciso a colpi di pistola col silenziatore, davanti agli occhi della madre e del padre, legati e immobilizzati. I tre giovani ragazzi che lo uccisero non sono stati mai trovati e non si sono mai consegnati. Esistono sospetti, vox populi, certo, ma giustizia non è stata mai fatta. L’omicidio di Valerio Verbano è uno dei tanti fatti di sangue degli Anni di Piombo rimasti impuniti. Una stanza buia che contribuisce alla mancanza, in Italia, di un percorso di riconciliazione nazionale simile a quello prodotto in Sud Africa, dove si è stabilito per i responsabili dei crimini dell’apartheid, per lo meno, di barattare la verità per l’impunità.
Sono molti i meriti di questo libro di Carla Verbano. Anzitutto la delicatezza del tono, scelta consapevole e generosa dell’autrice. Non credo, infatti, esista nulla di peggio che perdere un figlio perché qualcuno lo uccide di proposito, e davanti ai tuoi occhi, mentre tu non puoi reagire in nessun modo.
Nel momento in cui Carla decide di raccontare cosa accadde quel febbraio e di ricostruire il contesto della Roma dei primi anni Ottanta, sarebbe stato comprensibile incanalarsi in un tono di rancore, di tragedia, di desiderio di vendetta. L’autrice, invece, sceglie binari che lei chiama “marziani”: quelli della quotidianità, del dolore vissuto, accettato ed esposto come fosse un orologio al polso: dopo un po’ non ti accorgi più che c’è, eppure è lì e non lo togli nemmeno per andare a dormire. Accettazione, ma non rassegnazione: quella no, non c’è in queste pagine che si rivolgono in più punti al lettore con tono di confidenza intima per parlare in realtà agli assassini del figlio: “Via Monte Bianco 114, quarto piano, uscendo dall’ascensore a sinistra. Ma tanto la strada la conoscono. Qualcuno verrà, forse uno solo di quei tre, ma so che verrà. Sensazioni, certo. Gli devo dire una cosa, quando sarà.” (193).
Carla Verbano si fa aiutare nella parte di indagine e di riflessione dalla penna di un bravo giornalista del Corsera, Alessandro Capponi, apprezzato anche come narratore. Carla e Alessandro presentano una serie di interrogativi cui la politica, lo Stato, la magistratura non hanno saputo offrire alcuna risposta. Chiedono conto della fine che ha fatto il famoso “Dossier Verbano”, uno spesso quaderno Pigna corredato di un corposo servizio fotografico in cui Valerio aveva raccolto informazioni, nomi, facce, numeri di telefono e supposizioni personali sul panorama neofascista romano. Un quaderno che la famiglia Verbano ha chiesto ufficialmente di riavere una volta chiuse le infruttuose indagini, ma che gli è stato negato. La mamma di Valerio pensa che quel dossier sia uno dei possibili motivi dell’uccisione del figlio. Ma Carla e Alessandro raccontano anzitutto per chi di quegli anni non sa niente o abbastanza. In questo senso, il capitolo “Andiamo a passeggiare” dovrebbe essere letto nelle scuole, o per lo meno nelle scuole del quadrante Trieste-Parioli-Salario-Monte Sacro, le cui strade sono oggi punteggiate di lapidi di marmo che ricordano le decine di militanti, magistrati, poliziotti, professori uccisi sul selciato per seguire un’ideologia o un piano folle di rivoluzione.
Carla Verbano ha scritto questo bellissimo memoriale all’età di 86 anni, a trent’anni dalla morte di Valerio. Ed è poi morta, due anni dopo, senza avere la soddisfazione di poter incontrare una seconda volta l’assassino del figlio. Non ha mai potuto dirgli quella cosa a cui teneva. Non ha mai potuto chiedergli “Perché Valerio”. E allora queste pagine assumono un tono lirico, proprio per la loro completa, assoluta mancanza di retorica. Diventano una forma di poesia contemporanea, ricca di dignità e di intelligenza. Carla, con fare perfino ammiccante e genuino, racconta chi era quello scapestrato di Valerio: i suoi guai con la giustizia a 16 anni, le sue corse in Vespa, le botte al liceo Archimede, e tratteggia una Roma in cui era possibile morire per gli abiti che si indossavano o la musica che si ascoltava.
Nel panorama dei memoriali scritti da familiari delle vittime del terrorismo, tutti da leggere e da rispettare a prescindere dal colore politico di chi racconta, questo è uno dei testi più dolci e struggenti che si possano fare propri.