Sotto un cielo di stelle natalizie vorrei inviare un affettuoso augurio ai Cinquestelle vicini e lontani. In particolare a quelli più pervicacemente credenti, cui probabilmente le recenti vicende del Movimento hanno incrinato la spessa corazza di certezze fideistiche (tendenti al fondamentalistico).

In effetti la fine dell’anno è momento di bilanci. E nonostante i giochi di prestigio e le cosmesi comunicative, quello M5S presenta conti in rosso, mentre gli smottamenti (leggi defezioni) si fanno crescenti e l’insignificanza del ruolo politico coperto emerge con crescente nettezza. Questo nonostante le più che favorevoli condizioni di contesto: una montante sofferenza sociale, evidenziata dalle perdite di posti di lavoro crescenti a centinaia di migliaia, cui gli effetti speciali renziani non offrono alcuna speranza di cura; la crescita dell’area “indignata” che meriterebbe uno sbocco più costruttivo del non-voto. Nemmeno lo smascheramento delle connection romane tra l’establishment bipartisan del mondo di sopra e il demi-monde criminal-mafioso-terroristico ha ridato slancio a consensi bloccati sugli arretramenti dei mesi scorsi.

Ci si può consolare come si vuole, ma i consuntivi parlano chiaro: e dal punto di vista del ribaltamento degli equilibri del regime – quello che si voleva aprire come una scatoletta di tonno – parlano di un sostanziale fallimento. Sicché, se ci fosse un briciolo di attitudine critica, proprio quanti per mesi in questo spazio hanno coperto di insulti e insinuazioni velenose chi metteva in guardia sulle nudità pentastellari – ebbé – dovrebbero chiedere scusa.

D’altro canto, la fine e il nuovo inizio sono tempi anche di progetti e proponimenti. Nella mia duplice veste di elettore M5S alle ultime politiche e come genovese contrario a ogni pratica dissipatoria (dotazione elettorale compresa), vorrei provare a ragionare pacatamente con interlocutori in passato rissosi; ma che ora si spera evoluti a più maturi atteggiamenti.

Lo scrivo reduce da un seminario tenutosi a Parigi sulle nuove modalità di organizzare politicamente l’indignazione. In quella sede due sociologi importanti e informati – Manuel Castells e Michel Wieviorka – sottolineavano alcuni aspetti di grande interesse nel laboratorio spagnolo di Podemos. Il partito di Pablo Iglesias nasce come risposta di un gruppo di intellettuali madrileni al tema del come dare traduzione politica all’insorgenza del 2011, gli Indignados. Un’esperienza mondiale che il nostro Paese si è persa, dopo essere stato all’avanguardia con i vari Girotondini, Popolo Viola, Se non ora quando.

Il lascito primario del 2011 è una marcata sospettosità nei confronti delle leadership individualistiche e dei carismi presunti. Ne consegue che il gruppo dirigente deve stare bene attento a comportarsi responsabilmente e coerentemente, pena la contestazione/abbandono da parte di quella che è la sua forza ma anche il suo controllore: la base militante come punta emergente del consenso elettorale. Possiamo dire che questo avvenga anche nel caso italiano?

Non penso proprio che Iglesias abbia un ego inferiore a quello di Grillo (semmai è molto bravo in quello che il guru di Sant’Ilario non sa fare: il confronto faccia-a-faccia); di certo il nucleo fondativo di Podemos ha strumenti culturali un tantinello più acuminati della Casaleggio Associati. Ma quanto sembrerebbe decisivo è l’assenza di una vera dialettica interna al grillismo, in cui prevalgono incantamenti paralizzanti che producono sottomissione e conformismo.

Il fioretto che vorrei vedere spuntare sotto l’albero che raccoglie le residue risorse di cambiamento nel Paese bloccato dai collusi “nazareni” (pronti a varare gli antichi progetti gelliani ed eleggere un presidente della Repubblica che regga loro bordone), è quello di ridare credibilità al Movimento creando una effettiva dialettica democratica che produca politiche. Non regolamenti di conti e raccolta di scontrini.

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