Un volto significativo dei repubblicani usciti dalle elezioni di midterm 2014 è quello di Joni Ernst. Quarantaquattro anni, aspetto energico e sempre sorridente, la Ernst ha travolto le TV dell’Iowa con uno spot ormai famoso. La si vede sullo sfondo di una fattoria; dice di essere cresciuta lei stessa in una fattoria, dove “castrava i maiali”. Ernst promette di “farli strillare”, quelli di Washington. Intanto, la sua campagna elettorale ha diffuso per mesi i dettagli della sua vita e delle sue idee. Joni ha servito nell’esercito Usa durante l’Operation Iraqi Freedom del 2003. E’ una conservatrice senza paura, contro l’aborto e i matrimoni gay; ha anche chiesto l’impeachment del presidente Obama.

Joni Ernst ha vinto il seggio senatoriale dell’Iowa, per quasi trent’anni saldamente controllato dal democratico Tom Harkin, un politico che si è battuto per l’aumento del minimo salariale, il diritto d’aborto, i temi ambientali. La “castratrice di maiali”, come è stata spesso dipinta con una certa sufficienza da media e avversari, non ha solo convinto l’America rurale e profonda, ma si appresta a diventare uno dei politici americani di primo piano, capace di collegare aspirazioni e frustrazioni dei contadini dell’Iowa che l’hanno votata agli interessi del grande business e dell’élite economica Usa, che ha riempito le casse della sua campagna. In primo luogo, gli onnipresenti fratelli Kock, diventati i veri benefattori di ogni causa conservatrice in giro per l’America.

Non che Joni Ernst, ovviamente, possa diventare una possibile candidata per la corsa presidenziale del 2016. Le mancano contatti, esperienza, organizzazione, fondi. Ma la Ernst rappresenta molto bene la nuova voga di repubblicani apparsi in questi anni, quella generazione da cui, con ogni probabilità, emergerà il candidato del Gran Old Party del 2016: gente piuttosto giovane, apparentemente lontana dalla vecchia politica, anzi, apertamente critica dei compromessi e delle timidezze di Washington, con il cuore e la base politica nelle aree del sud e del Midwest, con un solido pedigree conservatore sui valori, nell’economia e nella politica estera.

Tra questa leva di politici, in corsa per diventare i leader repubblicani dei prossimi anni e possibili candidati alle presidenziali 2016, c’è per esempio Scott Walker, riconfermato governatore del Wisconsin dopo uno scontro duro con la democratica Mary Burke. Walker è apprezzato dalla base repubblicana per la capacità di parlare chiaro, e soprattutto per parlare un linguaggio conservatore lontano dai moderatismi dei dirigenti del partito. Appena eletto governatore, nel 2011, Walker iniziò un estenuante braccio di ferro con i sindacati, contrari alla decisione di Walker di eliminare la contrattazione collettiva per i dipendenti dello Stato.

Approvata la misura, tagliati di un miliardo di dollari i fondi per l’educazione del Wisconsin, Walker è sopravvissuto a un tentativo di democratici e sindacati di farlo decadere dal suo ruolo, attraverso un’elezione di “recall”, ed è andato avanti con la sua agenda: battaglia senza mezzi termini al diritto all’aborto, agli omosessuali (Walker si è opposto al diritto dei partner di visitare il compagno/la compagna malata in ospedale), alla riforma sanitaria di Obama. Un’altra battaglia che ha mostrato il temperamento tenace di Walker è stata quella sul diritto di voto: il governatore ha firmato una legge che obbliga gli elettori a esibire, alle elezioni, un documento di identità rilasciato dallo Stato. Un modo, secondo gli avversari, per limitare l’accesso alle urne dei più poveri e degli afro-americani.

Per avere qualche speranza di essere un candidato plausibile, Walker deve ovviamente, in vista del 2016, attenuare gli aspetti troppo conservatori della sua politica, ben al di là di quanto gli elettori indipendenti, ormai il vero ago della bilancia elettorale, possano tollerare. Nel caso la scelta cada su un politico più moderato, un altro nome emerso dalla galassia repubblicana in questi anni è quello di Marco Rubio. Anche lui relativamente giovane, ha quarantatre anni, Rubio ha in questi ultimi mesi cercato di rafforzare le credenziali in politica estera, per il momento piuttosto deboli. Si è dichiarato a favore di un aumento della spesa militare, per l’invio di truppe nella guerra contro l’Isis, per la fornitura di armi e finanziamenti ai ribelli siriani. Completa, e aiuta, il suo profilo, il fatto di essere saldamente conservatore sui temi fiscali e, soprattutto, l’origine cubana della famiglia, ciò che potrebbe aiutarlo con l’elettorato ispanico.

Proprio l’elettorato ispanico, fondamentale nella vittoria di Obama nel 2012 (gli ispanici sono l’11% della popolazione americana e rappresentano il gruppo in più rapida ascesa, demografica ed economica), potrebbe orientare la scelta dei repubblicani per il 2016 su un candidato conosciuto, affidabile, con alle spalle i contatti e i finanziamenti giusti: e cioè Jeb Bush, fratello di George W. Bush e figlio di Bush senior, ex-governatore della Florida e sposato a Columba Gallo, migrante dal Messico (tra l’altro proprio il figlio di Jeb e Columba, George P. Bush, è stato eletto a una carica amministrativa in Texas e rappresenta la terza generazione dei Bush che si affaccia alla vita politica).

Va segnalato ancora il ruolo che nei prossimi due anni può giocare il senatore Rand Paul, l’unico possibile candidato che abbia cominciato a creare un network di sostegno nei 50 Stati dell’Unione; gli potrebbe essere però fatale l’ideologia libertarian, lontana dalla classe dirigente di Washington. E va segnalata, per finire, l’assenza-presenza che a queste elezioni di medio termine, e alle prossime presidenziali, ha giocato e giocherà il Tea Party. Pur non riuscendo a far eleggere politici che si richiamano direttamente alle sue strutture, il movimento ha comunque centrato un obiettivo ancora più importante: la sua ideologia anti-establishment, conservatrice in materia fiscale e sociale, isolazionista in politica internazionale, si è impadronita di settori sempre più larghi del partito repubblicano e promette di influenzare il dibattito del 2016.

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