Come dobbiamo vivere è una raccolta di racconti; non un romanzo. Il che è già di per sé una delusione. Sembra sminuire l’autorevolezza del libro e far apparire l’autore come qualcuno che sta solo appeso ai cancelli della letteratura con la L maiuscola, anziché averli saldamente varcati”. Lo dice una delle protagoniste in uno dei racconti di Troppa felicità di Alice Munro (Einaudi).

Il racconto in questione si chiama Racconti, appunto, e non è la storia di una scrittrice. Ma è la storia di una persona che a un certo punto incontra una scrittrice di racconti: genere che ha riconosciuto alla Munro un Nobel, e che lei ha cocciutamente perseguito sin da quando ha messo per la prima volta la penna sulla carta – nel 1950, quando scrisse il suo primo racconto The dimension of a shadow.

Più volte la Munro ha riabilitato il racconto all’interno delle sue opere, ridicolizzando chi – nella filiera editoriale ma anche tra i lettori – lo reputa un gradino sotto al romanzo. La scrittrice impone la difficile arte del racconto nel solo modo che conosce: scrivendo racconti. I suoi libri (eccetto l’unico romanzo Lives of Girls and Women) sono, infatti, tutte raccolte di short stories: La danza delle ombre felici (La Trtaruga – Einaudi), un libro dal materiale narrativo delicato e complesso; un materiale che poi si farà dirompente e onirico ne Il sogno di mia madre; pacato e denso in Nemico, amico, amante…; pura rivelazione in In fuga, per poi trasformarsi nello sguardo brillante e carnale tipico della Munro ne Il percorso dell’amore, Segreti svelati, Le lune di Giove, La vista da Castle Rock, fino all’ultimo Uscirne vivi (tutti pubblicati da Einaudi).

Il racconto è una fugacità nell’immanenza. E la Munro ha saputo coglierne i meccanismi profondi, le dinamiche segrete. Scrivere racconti è difficile. E’ difficile leggerli. Per questo, in Italia soprattutto ma anche altrove, la narrativa breve fatica a imporsi. La Munro dichiarò che ha scritto solo racconti perché aveva tre figlie a cui badare e poco tempo per scrivere un romanzo. Questa dicotomia tra romanzo e racconto lei l’affronta così, con l’ironia che merita questa contrapposizione, fino a imporla a una questione di sguardo, tecnica e visione letteraria.

Lo scrittore statunitense Edgar Lawrence Doctorow, sostiene che il romanzo fa parte di una struttura insita al sistema linguistico e culturale del genere umano. Dalle storie orali a quelle epiche, l’uomo è culturalmente educato al bisogno che il romanzo soddisfa: l’immedesimazione in un’esperienza complessa, che ha a che fare con il mistero dell’esistenza immersa nel più grande mistero del tempo. Quello che fa un racconto, invece, secondo Doctorow è più sottile, intricato, capillare rispetto al romanzo.

Il racconto seleziona e svicola l’effetto del tempo, entrando in profondità in un fotogramma e svelarne così certi meccanismi nella loro origine umana. Lui paragona il romanzo al dipinto e il racconto al disegno; un ingranaggio meno immediato che presuppone strumenti conoscitivi e linguistici di una raffinatezza specifica. Nella scrittura di Alice Munro c’è tutto questo, e la rara capacità di cogliere il piccolo mondo di un personaggio per regalarlo al genere umano completo. Nei suoi racconti ci viviamo tutti quanti. Leggerla, sarebbe un buon modo per appassionarsi al racconto e redimere una forma letteraria che vanta una tradizione lunghissima e preziosa.

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