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‘Italy in a day’, l’Italia senza sintesi di Salvatores

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Quanta Italia c’è in un giorno? Quanta Italia c’è in a day, in Italy in a day?

Più che un film sull’Italia, Italy in a day – il film realizzato da Gabriele Salvatores montando una piccola parte delle migliaia di video girati dagli italiani il 26 ottobre 2013 aderendo al suo invito e passato ieri sera su Raitre, dopo la presentazione veneziana e una rapida uscita in sala – è un film sull’uso delle immagini ai tempi dei selfie, dei cellulari, delle microcamere.

Tutti possiamo girare tutto, lo si vede bene quando capita una sciagura improvvisa in qualche luogo affollato e sempre c’è un video che la testimonia: lo scoppio di un incendio, un’alluvione, un terremoto. E tutti – cioè i quasi 45.000 autori dei video mandati al progetto – hanno girato tutto quello che hanno voluto: risvegli, viaggi, scene familiari (troppe), scene drammatiche (poche), stranezze (vite da astronauti o da naviganti, esili voluti o esili dovuti ecc.), egoismi e altruismi, solitudini e socialità.

Da questo bendiddio di immagini si può uscire con almeno due considerazioni. Da un lato l’Italia che decide di riprendersi lo fa – se la selezione è stata rispettosa delle tendenze manifestate nella quantità dei video inviati – cancellando molte zone del quotidiano e enfatizzandone altre: non ci sono le professioni, non ci sono le vite dei ricchi né quelle dei troppo poveri, non c’è il degrado estremo che invece circonda e invade il paese, non c’è la vita culturale, non c’è (stranamente, anche perché il giorno delle riprese era un sabato) il cinema come luogo di spettacolo e di socialità, non c’è la televisione, che pure ogni giorno forma il menu di almeno metà degli italiani. E non c’è la politica, a dimostrazione del fatto che la sua narrazione dell’Italia è totalmente scissa dal sentire comune degli italiani. Ci sono invece molti bambini: bellissima immagine, carica di speranza e di futuro, ma forse un po’ troppo di parte in un paese che di bambini ne fa davvero pochi. Quindi Italy in a day non è un selfie dell’Italia, ma il ritratto di “una vita da mediano”, quella dell’Italia che accede a Internet – quindi ha discreti mezzi mediatici – ma mediamente ha pochi mezzi economici.

Questa “medietà” sociale del film, che si traduce anche in una sorta di medietà delle immagini, le quali ogni tanto riservano qualche sorpresa visiva, ma in genere sono molto “feriali”, suggerisce una considerazione più generale proprio sull’uso delle immagini. Se ancora oggi c’è una differenza tra i film fatti in forma social, con i contributi di migliaia di operatori anonimi, e il cinema – potremmo dire il cinema cinema – questa non sta nel mezzo utilizzato, ma nell’effetto ottenuto. Ci sono film splendidi e visionari fatti con i cellulari e film noiosissimi fatti con apparecchiature ultrasofisticate. Ciò che noi chiediamo al cinema, anche nella sua forma più aderente alla realtà e al quotidiano, è quella che Alain Badiou definisce la capacità del cinema di creare nuove sintesi. Il cinema può creare nuove sintesi – cioè nuove intelligibilità – a partire dal sensibile. In realtà, dice Badiou, non c’è alcuna differenza tra il sensibile e l’intelligibile: il secondo è soltanto una lieve piegatura del primo, un’accentuazione, una sorta di colore del sensibile. Il cinema, a differenza delle altre arti che, come diceva Mallarmé, partono dalla purezza della pagina bianca e cercano di mantenerla, parte “dal disordine, dall’accumulo, dall’impurità: e da qui cerca di creare purezza”. Occorre svuotare, semplificare, asciugare. Eisenstein ha saputo farlo con il montaggio, Rossellini o Bresson con le immagini, il Fellini de La strada con il racconto. Ciò che invece un po’ manca in Italy in a day è proprio questa capacità di saltare verso la sintesi: tante immagini fanno accumulo, ma se l’accumulo resta tale, il cinema è solo in potenza.





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