Ha varcato la porta di un ristorante del Delaware, per un burger con fries e un paio di discorsi politici, mentre nel mondo si diffondeva la notizia dell’aereo delle Malaysian Airlines abbattuto in territorio ucraino. Ha passato la domenica mattina su un campo da golf a Camp David e intanto il numero delle vittime civili di Gaza cresceva. Nonostante le crisi internazionali, Obama in queste settimane ha tenuto l’atteggiamento del “business as usual”. Non ha modificato i suoi impegni; ha continuato a partecipare a eventi di raccolta fondi e appoggio ai candidati democratici alle elezioni di midterm; non è andato in televisione a precisare la posizione americana. I suoi avversari lo accusano di “debolezza” e un sondaggio mostra che la maggioranza degli americani disapprova le sue scelte internazionali; ma fonti dell’amministrazione, attraverso Ben J. Rhodes, vice consigliere alla sicurezza nazionale, rispondono che la situazione è “sotto controllo” e che gli Stati Uniti hanno una strategia sul lungo periodo.

In effetti, nel giro di qualche giorno, l’amministrazione Obama si è trovata a gestire una serie di dossier che sono tutto tranne che semplici. Oltre l’Ucraina e Gaza, c’è la questione del nucleare iraniano, la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan. A rendere ancora più complicate le cose, c’è il fatto che molte di queste crisi sono legate e spesso contrastanti. Gli Stati Uniti attaccano la Russia sull’appoggio ai ribelli ucraini e decidono nuove sanzioni contro Putin; ma hanno bisogno di Putin per placare le ambizioni nucleari dell’Iran. La Casa Bianca vede nell’Iran uno dei più pericolosi motivi di destabilizzazione in Medio Oriente; ma lavora insieme a Teheran per neutralizzare la minaccia dell’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) in Iraq. “Viviamo in un mondo complesso e in tempi difficili”, ha detto Obama qualche giorno fa, in un discorso in cui nel giro di sette minuti ha dovuto parlare di Ucraina, Gaza, Iran e Afghanistan. “E nessuna di queste crisi offre facili soluzioni”, ha aggiunto.

A parte l’apertura di fronti così numerosi e simultanei, quello che Obama sta realizzando in queste settimane è comunque la politica delineata lo scorso maggio con un discorso all’Accademia di West Point. “Gli Stati Uniti devono sempre guidare”, ma leadership americana non significa piombare militarmente in ogni area del mondo dove si apre una crisi, ha spiegato Obama davanti ai cadetti. La forza militare va usata esclusivamente quando gli interessi americani sono “direttamente minacciati” e comunque sempre in partnership con i Paesi dove i network terroristici agiscono e in accordo con le grandi istituzioni internazionali. “La leadership americana ci richiede di vedere il mondo com’è”, ha concluso Obama, con una frase che è parsa l’implicita pietra tombale sulla dottrina Cheney-Rumsfeld di interventismo militare ovunque e comunque. Da allora sempre più spesso, nelle stanze dell’amministrazione e tra molti analisti, si è sentita una frase che sembra racchiudere bene la sostanza della politica estera americana con Obama. “Do no harm”, non fare danni, non complicare le cose.

Obama crede davvero, fanno sapere i suoi collaboratori, che uno dei rischi maggiori per gli Stati Uniti siano presidenti iper-attivi, convinti di dover affrontare eventi eccezionali, sconosciuti ai loro predecessori, e quindi portati a intervenire direttamente nelle crisi. Sembra che la prima cosa che il presidente abbia detto, alla notizia dell’aereo abbattuto in Ucraina, sia stata: “Avete visto? Abbiamo fatto bene a non fornire i ribelli siriani di sistemi antiaerei”. La necessità di concentrarsi sulle questioni interne – in primo luogo quella riforma dell’immigrazione che Obama vorrebbe far approvare prima della fine della sua presidenza – hanno ulteriormente raffreddato ogni ambizione di pericolose avventure estere. Il problema è che questa politica alla fine non ha convinto la maggioranza del Paese. L’ultimo sondaggio New York Times/CBS News ha rivelato che il 58% degli americani disapprova come Obama ha sinora gestito gli affari internazionali. Forse, nel giudizio, conta la percezione di una presidenza ormai piuttosto debole; una percezione che dalle questioni nazionali ha finito per riverberare su quelle internazionali.

Sicuro è invece lo sfruttamento che dei tanti fronti aperti nel mondo stanno facendo i conservatori e i repubblicani. “Obama emana un’impressione di debolezza e la Russia ne approfitta”, ha spiegato l’ex-ambasciatore all’Onu, e convinto neocon, John Bolton. “Il presidente è un assente ingiustificato sulla scena internazionale”, gli ha fatto eco il senatore repubblicano John McCain. “Obama è il re dell’indecisione”, è il commento di un altro senatore, Lindsay Graham. Nonostante critiche e sondaggi, la Casa Bianca non sembra intenzionata a cambiare strada. “Il fatto che ci siano delle crisi non significa che si debba reagire in modo eccessivo. Noi teniamo gli occhi fissi sul lungo periodo, anche nel mezzo di periodi tumultuosi”, ha fatto sapere sempre Ben Rhodes, vice alla Sicurezza Nazionale.

Ciò non toglie che i “periodi tumultuosi” si facciano sempre più tumultuosi, non si veda una soluzione possibile e il mondo, per storia e abitudine, guardi al gigante americano che non riesce più a imporsi. Il segretario di Stato John Kerry ha lasciato Gaza senza un accordo; la guerra va avanti in Ucraina e Siria e in Iraq l’Isis è ormai una vera e propria entità statale. Una chiave, a tutto questo, ha tentato di darla Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations: “Il problema è che è finita la Guerra Fredda. Le relazioni non sono più così chiare, i fronti si moltiplicano e gli interessi sono sempre più frastagliati”.

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