Bisogna ammetterlo, quando c’erano i comunisti, quelli sani che facevano riferimento all’Urss, le cose erano più semplici.  Si poteva essere buoni o cattivi, essere nella Nato o essere nell’Urss (ovviamente gli abitanti dell’Urss avevano la visione opposta).

Finita la guerra fredda, caduto il muro di Berlino (caduto sotto i colpi delle democratiche picconate) molte sicurezze si sono sgretolate. Quello che un tempo era un alleanza atlantica creata per dare supporto ai paesi dell’Europa, oggi è un organizzazione che estende le sue attività in tutto il mondo: dall’Afghanistan al centro Europa.

Essere invitato come analista dalla Nato durante l’ultimo Consiglio dei ministri degli Esteri è sicuramente interessante. La possibilità di sedersi e fare due chiacchiere con il personale dei vari dipartimenti dalla comunicazione alle analisi strategiche, in aggiunta ad un caffè con giornalisti di tutto il mondo, offre una percezione nitida di questo organismo, visto da dentro.

Il primo punto da comprendere è dove stia andando la Nato. La situazione appare un poco confusa. Una cosa è certa la Nato, i suoi membri, devono molto agli Usa. Senza la presenza americana questa organizzazione sarebbe depotenziata, e senza mezzi termini, potrebbe essere una modesta entità di intelligence e coordinamento piuttosto che avere una proiezione militare. Prova pratica è stata l’attività militare portata da alcuni membri europei in Libia. Dopo alcuni giorni senza il supporto Usa si era a corto di materiale bellico adatto per portare un po’ di sana democrazia in Libia (i libici hanno apprezzato molto, ora hanno solo un piccolo problema su chi dovrebbe governare la nazione, molte sono le tribù che stanno democraticamente dibattendo la questione). A rischio di apparir cinico la guerra costa: mezzi, uomini, formazione, pezzi di ricambio, carburante. Se la guerra in Kosovo è stata un “opportunità” per molti membri nato di “svuotare i magazzini” così non si può dire della missione in Afghanistan. Tutti gli alleati, specie gli Americani, che hanno gestito anche la guerra in Iraq con pesanti carenze di risorse umane (la guardia nazionale è dovuta intervenire pesantemente per colmare i ranghi e ha subito importanti perdite), sono usciti provati dalle recenti missioni di pace.

Tra gli interventi di maggior rilevanza quello del segretario di stato Usa John Kerry che senza mezzi termini ha detto di spender di più ai membri nato europei che non investono almeno il 2% del proprio Pil in spese militari. Tralasciando come dovrebbero esser investite queste risorse (di cui a mio modesto avviso l’Italia al momento è deficiente) viene da pensare se lo sforzo vale la candela. Il rischio che i membri dell’Unione Europea (malgrado i timori russofobici degli ex paesi Urss, giovani membri della Unione Europea) vengano attaccati da un entità nazionale straniera sono minimi. Se il messaggio americano è stato udito chiaramente, con relativi scenari di minacce future (il tema ucraino e quello iracheno erano oggetto di varie riflessioni), vi sono potenziali minacce di minori dimensioni quantitative che la Nato potrebbe dover affrontare sul suolo natio.

Dal Kosovo a oggi una nutrita schiera di soldati di ventura, emigrati dall’Europa o da ex Urss, si sono addestrati e hanno perfezionato le tattiche di combattimento (dalla guerriglia al corpo a corpo) grazie all’ultimo decennio di conflitti e missioni di pace (a seconda del punto di vista). Il rischio che questi soldati, a corto di guerre e conflitti possa tornare in patria, una qualunque nazione europea, e trovare un modo creativo per tirare a campare con le acquisite conoscenze militari è probabile. Di recente l’inglese Telegraph ha affrontato il tema sollevando preoccupazioni in merito alla sicurezza nazionale. Con questi scenari la comprensione di come la Nato andrà evolvendosi diventa cruciale sia per gli investimenti (economici e di natura materiale quale formazione, scelta degli armamenti etc…) che ogni nazione dell’alleanza deve affrontare, come suggerito gentilmente dal signor Kerry, sia per i potenziali ritorni di investimento. Su questo punto mi sono soffermato, nella mia visita, a discutere con il personale addetto agli approvvigionamenti Nato. Se è vero che l’alleanza chiede tanto potenzialmente offre molto. Non è difficile capire che i maggiori beneficiari in termini di vendita di prodotti o servizi siano le aziende belghe. Tuttavia le opportunità per le nostre imprese, Pmi e grandi colossi come Selex (che di recente si è aggiudicata una gara) sono numerose.

Basti pensare alla nuova sede Nato in via di ultimazione per cui si dovrà comprare tutti i mobili per uffici, linee di comunicazione e apparecchiature. Una cifra stimata di investimento per l’alleanza potrebbe superare i 20 milioni di euro. Discutendo con i responsabili approvvigionamento non mi fanno segreto che l’Italia con la sua esperienza nella produzione di mobili ha molto da offrire, ma finora ben poche aziende italiane hanno manifestato interesse. Noi italiani siamo bravi a lamentarci ma di spender tempo per compilare un po’ di documenti (le gare all’estero non si fanno “con gli amici” come per Expo2015 e Mose, ma compilando correttamente tutta la documentazione!) non se ne parla.

In attesa del vertice Nato che si terrà in Galles (auspicando che il Regno Unito per allora sia ancora nell’Unione Europea altrimenti dovrò rinnovare il mio passaporto) dell’ultimo vertice a Bruxelles restano ricordi positivi del personale della delegazione italiana, disponibili ed efficienti, piacevoli chiacchierate con i giornalisti iraniani e afghani da cui si percepisce la vita vera in quelle nazioni (non le cose che si leggono sui nostri giornali!). Resta il grande punto interrogativo su come questa storica alleanza avrà modo di affrontare le sfide future, sperando che noi italiani, nel nostro piccolo, ci svegliamo e cerchiamo di far affari con questa organizzazione.

@enricoverga

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