La scorsa settimana, invitata dal mio amico Muhummad Yunus, ho visitato il Bangladesh. E’ stata un’esperienza davvero toccante e stimolante. Ho incontrato delle persone straordinarie, che tra mille difficoltà cercano di migliorare il loro Paese e le loro vite. Al mio ritorno ho scritto una lettera alle mie figlie, che potete trovare di seguito:

La continua ricerca della libertà del Bangladesh

Care Mariah, Michaela e Cara,

Ho desiderato tutta la vita visitare il Bangladesh, ma tutto quello che ho sempre sentito sul suo popolo che ama la libertà così tanto da averlo fatto resistere all’attacco di grandi eserciti, alla carestia e ad un’endemica povertà, non mi avevano preparato a quello che ho visto in questi ultimi tre giorni.

Il coraggio patriottico dei bengalesi e la resistenza agli attacchi delle milizie pachistane per oltre quarant’anni è qualcosa di leggendario nella nostra famiglia. Mi ricordo ancora quando il vostro meraviglioso zio Teddy ci raccontò della sua visita ai campi per i rifugiati di Calcutta, dove decine di migliaia di persone non vivevano in tende, bensì nelle fognature. Le persone che vivevano in quei campi sono sfuggiti agli omicidi di massa – qualcuno lo definirebbe genocidio – un orrore che gli Stati Uniti non sono stati in grado di fermare perché la politica ufficiale dell’amministrazione Nixon era quella di prediligere il rapporto con il governo pakistano anziché con coloro i quali condividevano il nostro amore per la libertà. Il grande zio Teddy promise di ritornare quando il Paese avrebbe ottenuto l’indipendenza e qualche mese più tardi, insieme a zio Joe, fu tra i primi visitatori internazionali del neonato Stato del Bangladesh.

Ricordando quello che avevo sentito dai racconti dello zio Teddy, non mi ha stupita incontrare delle persone così straordinarie come quelle che io e la mia collega Lydia Allen abbiamo conosciuto in Bangladesh, persone che hanno patito sofferenze indicibili in nome della libertà che amano e chiedono per il loro Paese.

Muhammad YunusIn una piccola stanza di legno, dove erano ammassate donne vestite di sari dai colori vivaci, abbiamo conosciuto una coraggiosa azionista della Grameen Bank – l’innovativa istituzione di microcredito fondata dal Nobel per la Pace Muhammed Yunus – che ha prestato 5.000 taka (all’incirca 80 dollari) per l’acquisto di un risciò, e poi 20.000 taka (240 dollari) per una mucca, o 30.000 taka (480 dollari) per un terreno. Grazie al suo duro lavoro e a quello della Grameen Bank, adesso vive in una casa dotata di tutti i servizi, ha una dispensa piena di cibo, acqua corrente, un gabinetto funzionante e la televisione. E’ riuscita a mettere da parte 100 taka al mese, che le frutteranno quest’anno 100.00 taka (750 dollari).

Abbiamo incontrato il proprietario di un negozio e sua moglie, che hanno usufruito di un prestito della Grameen per comprare pannelli solari, che gli hanno permesso di ampliare la loro vetrina e dare più luce alla casa di mattoni che dividono con i tre fratelli e le cognate.

Abbiamo incontrato una giovane donna che, grazie a una borsa di studio della Grameen, sarà la prima donna della sua famiglia ad andare all’università. Si sta laureando in informatica e vorrebbe avviare un’attività nel settore delle tecnologie dell’informazione per migliorare la qualità della vita nel suo quartiere.

Abbiamo conosciuto 10 donne che siedono nel consiglio di amministrazione della Grameen Bank, tutte beneficiano di un prestito. Sono furiose col Governo e molto preoccupate per le sorti della banca. Il Governo ha recentemente rimosso il Dott. Yunus dal suo incarico nel consiglio di amministrazione con la scusa che aveva superato il limite massimo per la pensione, fissato a 60 anni. Poi, non trovando un’altra via legale per farlo, il Governo ha utilizzato il timbro del Parlamento per modificare una legge sulle banche con il chiaro intento di rimuovere la donne povere dal cda della Grameen Bank e rimpiazzarle con i lacchè della classe dirigente che, secondo i timori delle donne, trasformeranno la banca multimilionaria, che ha aiutato così tante persone a sfuggire alla povertà, in un ennesimo fondo nero da cui i cleptocrati potranno continuare a rubare indisturbati.

Abbiamo incontrato una dozzina di donne, molte delle quali avvocati, tutte appartenenti a Ong che lavorano per i diritti delle popolazioni indigene, per gli equi processi, contro la violenza di genere, contro le battaglie per la dote, contro gli stupri e a sostegno dell’ambiente. Molte di loro sono state arrestate e molte sono costrette a convivere con minacce quotidiane. Una ci ha detto che suo marito “è stato fatto sparire”, apparentemente per ritorsione contro il suo lavoro. Hanno paura delle forze di sicurezza nazionali, note per i rapimenti, le torture e le esecuzioni sommarie. Ma ogni mattina continuano a svegliarsi, baciano i loro figli ed i loro mariti e tornano a lavoro, dando una quotidiana prova del loro sereno coraggio.

Abbiamo conosciuto una donna che lavorava al Rana Plaza, il palazzo crollato in cui lavoravano, in condizioni di semi schiavitù, molte persone impiegate nel mercato tessile occidentale che ci ha detto di non voler mai più lavorare nel settore dell’abbigliamento. Ne ho incontrata un’altra che ci ha detto la stessa cosa, ma ha aggiunto: “Ma siamo poveri, dobbiamo lavorare”.

Erano in fila con molte altre all’ingresso del Rana Plaza Claims Administration, il gruppo no profit incaricato di provvedere al risarcimento delle vittime del crollo del palazzo. E’ un’operazione imponente, condotta da un gruppo di esperti in diritto del lavoro, legge ed informatica, che lavora per risarcire ogni singola vittima che soffre di danni fisici o morali e le famiglie dei dipendenti morti nel crollo che erano l’unica fonte di sostentamento per loro. Hanno 17 milioni di dollari a disposizione, ma, calcoli alla mano, la cifra necessaria ammonterebbe a 40 milioni. Non esiste però alcuna legge che imponga all’azienda di risarcirli come sarebbe giusto. Se qualcuno si è dimostrato generoso, troppi si sono rifiutati di partecipare alle spese proprio perché nessuna legge glielo impone.

Abbiamo incontrato l’Ambasciatore americano Dan Mozena, un uomo molto impegnato nel promuovere gli interessi americani all’estero attraverso la promozione dei diritti ed il miglioramento della condizioni di vita degli abitanti del Bangladesh. Mi ha invitata a visitare l’Edward M. Kennedy Center ed il Ted Café, un luogo di ritrovo creato dall’Ambasciata per permettere alle Ong di incontrarsi e parlare liberamente ed in sicurezza e per dare l’opportunità ai giovani di conoscere il nostro Paese.

Michaela, un intero scaffale della libreria era pieno zeppo di libri per i test di ingresso all’università, che mi erano molto familiari. Grazie all’Ambasciatore Mozena avrai molti giovani concorrenti bengalesi quando ti iscriverai all’università, forti della determinazione di voler studiare negli Stati Uniti e rientrare poi nel loro Paese pieni di una nuova speranza per il futuro.

Abbiamo conosciuto Admil Rahman Khan, che ha organizzato una squadra di più di 400 supervisori dei diritti umani ed attivisti provenienti da tutto il Paese per monitorare e denunciare le violazioni al diritto di voto, la repressione della libertà di espressione ed assemblea, nonché gli episodi di tortura, esecuzioni sommarie, sparizioni ed altro – ricordando al Governo la sua responsabilità per i fallimenti nel proteggere la libertà che i bengalesi hanno conquistato ad un prezzo altissimo 40 anni fa. Adil cerca la verità in un Paese dove 197 ufficiali anticorruzione sono attualmente sotto inchiesta proprio per corruzione. Per il suo lavoro, Adil vive costantemente sotto minaccia di morte. Un anno fa, dopo aver stilato un rapporto che documentava un massacro di 61 manifestanti ad opera delle forze governative, è stato prelevato e trattenuto per 62 giorni senza essere processato in una cella sporca, tormentato dalle cimici e nutrito solo con cibo avariato.

Lo zio Teddy sarebbe stato così fiero di sapere che quest’uomo, che incarna tutti quei valori che Teddy e Nonno Bobby ammiravano così tanto, riceverà il Robert F. Kennedy Human Rights Award tra qualche mese.

E, ovviamente, abbiamo incontrato il mio caro amico Muhammed Yunus. Ci ha invitate a Dhaka per il Social Business Day, dove persone provenienti da ogni angolo della Terra si incontrano per condividere idee ed esperienze tese a creare un business che non persegua il profitto degli investitori, ma soluzioni a problemi quali l’alloggio e l’accesso al cibo.

Portavate ancora il pannolino quando il Dott. Yunus venne a casa nostra, quasi 15 anni fa, per farsi intervistare per il mio libro “Speak Truth to Power”. Sono sempre stata molto colpita dal senso di pace e serenità che emanava durante le sue conferenze alle quali avevo fino ad allora partecipato. Ma non avevo mai capito quanto il suo lavoro fosse incredibile fino a quando non l’ho incontrato in Bangladesh. Il Dott. Yunus combatte ogni giorno contro i tentativi del governo di distruggere tutto quello che ha creato in una vita di lavoro. Ma lui resiste e ci invita a cercare in ogni modo la pace nel caos delle nostre vite e a godere della serenità che nasce dal sacrificio. La sua perseveranza mi ricorda questi versi del poema “Se” di Rudyard Kipling:

Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto

Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi,

O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,

E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi.

Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtù,

passeggiare con i Re, rimanendo te stesso,

Se saprai riempire ogni inesorabile minuto

Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi,

Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa…

Ed è così che il Dott. Yunus ha conquistato il mondo.

Che posto incredibile, che incredibile nazione. Negli Stati Uniti oggi festeggiamo il giorno dell’Indipendenza e spero che trarremo ispirazione dal popolo del Bangladesh e che ci dedicheremo alla democrazia ed alla libertà, sapendo che il prezzo da pagare può essere molto alto, ma vale il sacrificio.

Con amore,

Mamma

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