Amal è scappata dalla Siria in guerra ma deve tornarci due volte alla settimana per effettuare la dialisi renale. Ha paura ma non ha altra scelta: in Libano non può curarsi.

Arif, 12 anni, è arrivato dalla Siria con le gambe bruciate ma non è stato ricoverato. Le piaghe si sono putrefatte, le gambe si sono gonfiate e si è sviluppata una setticemia. Sulla base delle attuali linee guida dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), Arif non rientra tra coloro che possono ricevere cure mediante sussidio e l’agenzia è stata in grado solo di coprire le spese di cinque giorni di trattamento. Alla fine, una rete di associazioni locali ha trovato un medico volontario disponibile a operare Arif. Tuttavia, il ragazzo ha bisogno di altre 13 operazioni che non possono essere eseguite in Libano a causa della mancanza di attrezzature adeguate.

Quelle di Amal e Arif sono due delle storie di cure mediche negate ai rifugiati siriani in Libano, contenute in un rapporto diffuso mercoledì scorso da Amnesty International. Storie di dolore, che chiamano in causa l’indifferenza della comunità internazionale di fronte a quanto accade in Siria da oltre tre anni.

Nell’ambito dell’appello lanciato nel 2013 per raccogliere 4,2 miliardi di dollari per i rifugiati siriani, le Nazioni Unite hanno chiesto 1,7 miliardi di dollari da destinare al Libano per il 2014. Finora è stato ricevuto un misero 17 per cento.

Il risultato è che tantissimi rifugiati siriani in Libano si sono visti negare cure mediche o sono stati respinti dagli ospedali perché il loro caso non era “prioritario” tra quelli di cui occuparsi coi pochi soldi messi a disposizione dell’Unhcr.

Il sistema sanitario in Libano è quasi interamente privatizzato e le prestazioni sanitarie costano tantissimo. Per questo, molti rifugiati siriani devono fare affidamento sulle cure mediche finanziate dall’Unhcr.

Tuttavia, a causa della mancanza di fondi, l’agenzia Onu ha dovuto introdurre criteri restrittivi per individuare le persone che hanno necessità di un trattamento ospedaliero. Priorità, dunque, all’assistenza sanitaria di base e al trattamento delle emergenze che mettono a rischio la vita (anche nel caso in cui i criteri siano soddisfatti, la maggior parte dei rifugiati deve comunque pagare una parte dei costi).

Il risultato è che ci sono rifugiati, come Amal, che hanno deciso di fare la spola con la Siria o che addirittura hanno deciso di tornarci definitivamente. Evidentemente, ci si cura meno peggio nel proprio paese in guerra.

Chi resta – tra cui persone colpite dai tumori o da altre malattie a lungo termine  – non è quasi mai in grado di affrontare le costose cure di cui ha bisogno in Libano. Le opportunità di lavoro sono assai scarse per i rifugiati siriani, la maggior parte dei quali ha attraversato la frontiera portando con sé poco o nulla. Si deve scegliere se pagare le cure mediche, affittare un posto dove dormire o comprare cibo. Quasi inevitabilmente, si finisce nelle mani di strozzini senza scrupoli.

Le responsabilità naturalmente non sono dell’Unhcr né tantomeno del Libano. Dallo scoppio del conflitto oltre confine, questo paese è sovraccaricato e privo delle risorse necessarie per affrontare la crescente crisi dei rifugiati siriani, dei quali quelli registrati sono attualmente oltre un milione. Si stima che alla fine del 2014 il numero salirà a un milione e mezzo, equivalente a un terzo della popolazione libanese prima dell’inizio della guerra in Siria. 

Le responsabilità sono di quell’87 per cento che manca per avere un programma di assistenza sanitaria che funzioni bene e salvi vite umane. Sono di quei paesi che preferiscono continuare a fomentare la guerra piuttosto che aiutare i rifugiati

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