“D’ora in avanti il Benfica non vincerà più una coppa internazionale, per almeno 100 anni”. La leggenda dice che furono queste le parole pronunciate dal grande allenatore ungherese Béla Guttmann, il primo maggio del lontano 1962. E ditelo ai tifosi portoghesi che nel calcio la superstizione conta poco. Chiedetelo a loro se è davvero così, dopo aver perso otto finali in cinquant’anni.

La storia di quella maledizione ormai è nota quasi a tutti, tramandata e raccontata di generazione in generazione. Questione di vil denaro, un aumento di stipendio preteso e non concesso. Ma per un magiaro ebreo, che aveva vissuto la Grande Depressione del ’29 e perso un fratello nei campi di concentramento nazisti, il denaro non era poi così vile.

E Béla Guttmann, allenatore del grande Benfica campione di tutto ad inizio Anni Sessanta, non era un uomo qualunque. Scampato all’olocausto per miracolo. Giramondo ben prima della globalizzazione del calcio, che ha portato in Austria, Italia, Argentina, Cipro, Brasile, Portogallo, Uruguay, Svizzera, Grecia. Capace di insegnare ai brasiliani il loro modo di giocare, il 4-2-4 tutto attacco e fantasia con cui poi la nazionale verdeoro avrebbe stupito il mondo a Svezia 1958 (il Mondiale di Dìdì, Vavà, Garrincha e Pelè).

Uno così, dopo aver vinto due finali consecutive di Coppa dei Campioni (contro il Barcellona di Luisito Suarez, e il grande Real di Puskas, Gento e Di Stefano), probabilmente un aumento di stipendio lo avrebbe anche meritato. Invece nulla. E siccome non era un uomo comune neppure negli addii, se ne andò sbattendo la porta. E scagliando un anatema secolare.

Da quel giorno, oggi, sono passati 52 anni. E il Benfica ha perso otto finali europee consecutive. Passi quella del ‘62/’63 contro il Milan di Gianni Rivera: il tris sarebbe stato eccessivo. O quella ‘64/’65 contro la Grande Inter di Helenio Herrera, squadra destinata a far la storia. Poi, però, le sconfitte si sono fatte sempre più beffarde. Ai supplementari col Manchester nel 1968. All’ultimo minuto, l’anno scorso in Europa League, con il Chelsea. Ai rigori nel 1988 contro il Psv Eindhoven. E di nuovo ieri sera, contro il modesto Siviglia dominato vanamente per 120 minuti.

Senza riuscire a segnare perché vincere era impossibile. La maledizione non si cancella: Béla, scomparso da più di trent’anni, non è ancora appagato della sua vendetta. A nulla sono valsi i pellegrinaggi dei tifosi sulla tomba del vate magiaro, per chiedere perdono per l’ingratitudine umana, per implorare uno sconto. Prima della finale di Coppa Campioni del ’90 (giocata e ovviamente persa contro il Milan) anche Eusebio andò a far visita alle spoglie del suo maestro: ma neppure le lacrime della Pantera Nera, il più grande portoghese di tutti i tempi, creatura scoperta e plasmata da Guttmann, riuscirono a scalfire la maledizione. Contro cui non ha potuto nulla Jorge Jesus, che col suo cognome è riuscito a far risorgere le Aquile dal devastante finale di stagione 2013 (sconfitta in finale di Europa League, di Coppa del Portogallo e campionato perso all’ultima giornata).

Povero, maledetto Benfica. A volte l’ineluttabilità del destino è spaventosa. Per questo il dramma dei tifosi portoghesi non è solo questione di coppe e di pallone. Ha scritto qualcuno più bravo di me: “La vittoria non ti cambia la vita, la sconfitta sì”. Vero. Perché poi quando vinci è davvero un’emozione speciale. E lo sarà per il Benfica. Dovessero volerci anche altri 48 anni.

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