Ho nostalgia dei conflitti. Mi mancano quelle discussioni tese dove l’argomento è al centro e dove il contrasto non travolge l’interlocutore. Oggi da noi il conflitto esplode in rissa o si comprime in silenzio: nel primo caso pessimo teatro, nel secondo solo finzione. La tolleranza prevede la diversità, ma la diversità diventa materia di scambio se è manifestata per quello che è, non per distruggere l’altro. Perché chiedere di “abbassare i toni” se il problema è che a bassa voce mancano gli argomenti?

L’esorcista invocato da Travaglio può forse sedare le tarantolate, ma non può introdurre un civile confronto; per questo sarebbe necessaria una ormai dimenticata educazione al conflitto. Si discute per convincere e per vincere, non per farsi capire. O non si discute affatto. Non è solo perché siamo circondati da farabutti che devono nascondersi o urlare per coprire le loro malefatte; il fenomeno infatti non riguarda solo il mondo politico e finanziario.

Dal punto di vista psicologico si possono rintracciare origini e conseguenze di questi modi primitivi di affrontare un conflitto di opinioni. All’origine del silenzio si trova una fantasia infantile di unanimità e una paralizzante paura di essere disapprovati. Non è mitezza: è paura di sé e dell’altro. La diversità viene vista come un ostacolo alla relazione e non come un dato ineliminabile dell’esperienza. Ne derivano tendenze depressive che col tempo provocano invidia, risentimenti e oscuri desideri di rivalsa. All’origine dell’esplosione rissosa si trova invece un’inconscia e ancestrale paura verso una presunta ostilità dell’avversario che scatena una rozza manifestazione auto difensiva; allora non è più un’opinione a essere contestata ma la personalità dell’interlocutore.

Ne deriva una tendenza paranoica, dove il “non siamo d’accordo” si trasforma in “ce l’ha con me, quindi lo distruggo”. Che peccato: ci si sottrae o ci si scontra, e così non ci si incontra.

 

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