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Nomine manager pubblici: Renzi, rottamare a metà

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Rottamare è la cosa che gli riesce meglio: Matteo Renzi lo aveva promesso e lo ha fatto, via tutti i vertici delle grandi aziende controllate dallo Stato. Tutti tranne Gianni De Gennaro a Finmeccanica (anche nel renzismo esistono gli intoccabili, soprattutto se cari al Quirinale). Due mesi fa non era affatto scontato che fosse possibile rimuovere campioni della continuità come Paolo Scaroni dall’Eni, Fulvio Conti dall’Enel e Massimo Sarmi dalle Poste.

C’è voluta l’energia del premier per cambiare tutto. Ma il cambiamento, come spesso accade con Renzi, è fenomenale nell’estetica e più discutibile nella sostanza.

Ci sono le donne, finalmente. Ma per avere un po ’ di quote rosa ai vertici il governo ha dovuto recuperare due personaggi come Emma Marcegaglia e Luisa Todini, più note per il loro impegno politico (Confindustria una, Forza Italia l’altra) che per competenze specifiche su Energia e Poste. Il gruppo Marcegaglia ha pagato tangenti proprio all’Eni, così come Scaroni aveva pagato tangenti all’Enel prima di diventarne amministratore delegato nel lontano 2002. Anche questa è continuità. 
E Mauro Moretti, sostenuto dalla parte non renziana del Pd, è una scelta singolare per Finmeccanica: dopo una carriera nelle Ferrovie, guidate con il piglio deciso del monopolista, il manager arriva in un’azienda che sta vendendo il settore trasporti per concentrarsi su quello degli armamenti. E che senso ha promuovere Moretti che ha contestato il tetto agli stipendi dei manager pubblici e far proporre al Tesoro in assemblea di introdurli anche per le società quotate?

I nomi per i cda sono scelti con grande cura, di quasi tutti è facile ricostruire la casacca politica e il grado di fedeltà renziana, tra amici e finanziatori, più oscuri i meriti di curriculum. Il primo giudizio sulla rottamazione manageriale e sul nuovo volto del capitalismo pubblico renziano lo darà la Borsa oggi. Per vedere manager scelti soltanto sulla base delle competenze, magari sul mercato internazionale, dovremo aspettare altri tre anni. Forse.

Il Fatto Quotidiano, 15 Aprile 2014

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