Il sistema bancario italiano è in forte difficoltà. I crediti in sofferenza hanno ormai superato l’8 per cento degli impieghi, per oltre 156 miliardi di euro, raggiungendo quasi il 12 per cento di tutti i prestiti erogati fino a oggi, mentre le provvigioni a copertura di questi crediti sono solo al 39 per cento. Ma non è il solo dato finanziario che preoccupa. Le tristi vicende del Monte dei Paschi ci ricordano gli intrecci comuni in Italia tra la politica e la governance delle banche.

Un retaggio dei tempi in cui si tappavano i buchi con grandi svalutazioni monetarie pagate dai cittadini con tassi d’inflazione a doppia cifra. Mentre il retail banking digitale sostituisce i pagamenti in moneta, l’Italia è anche tra le prime otto nazioni al mondo per densità di filiali per ogni 100.000 abitanti. Deteniamo una tra le più alte percentuali sul valore degli impieghi di spesa per il personale nell’Eurozona. Un’infrastruttura enorme che andrà indubbiamente riconvertita ad altri usi. È un sistema bancario logorato da una governance del secolo scorso che fatica a rinnovarsi, in un sistema finanziario sempre più integrato con un’agguerrita concorrenza internazionale e con sfide ben più serie a livello globale.

Il razionamento del credito in Italia, il cosiddetto credit crunch, ha radici più profonde che la crisi dell’eurozona sta dissotterrando. Mentre la Bce esamina i bilanci delle principali banche europee con l’asset quality review, in Italia (e non solo) è già partita la corsa per salvare lo status quo. Buona parte del sistema bancario andrebbe ristrutturato, alcune banche acquisite da altri gruppi bancari e altre addirittura liquidate. È un modello di business che non funziona più. La risposta però è sempre la stessa, una bad bank. Una terminologia che ricorda la brutta storia della bad company di Alitalia. Il diavolo è nei dettagli di come verrebbe organizzata la nuova banca, ma cos’è in generale una bad bank? E’ un intervento con cui si separano gli attivi che hanno poche probabilità di recupero da quelli che hanno ancora un valore di mercato. La banca con gli asset tossici, la bad bank appunto, è mantenuta in vita di solito tramite garanzie statali, in attesa che questi attivi recuperino un valore di mercato. È la principale alternativa alla nazionalizzazione diretta delle banche durante una grave crisi finanziaria, come nell’autunno del 2008.

A spese dei cittadini
Tuttavia, il collasso di Lehman Brothers e il crollo dei mercati finanziari del mondo occidentale con il blocco totale del mercato interbancario sono ricordi del passato. L’attuale stabilità del quadro macroeconomico ci permette di organizzare riforme più radicali senza la giustificazione dell’emergenza. La proposta di una bad bank in questo contesto macroeconomico ha il sapore di una minestra riscaldata, con la quale si pospone un intervento risolutivo nel breve e si salvano elegantemente un po’ tutti quelli che quell’ignoto meccanismo di autoconservazione nel nostro Paese lo conoscono molto bene.

Si salvano pertanto i principali azionisti delle banche italiane, che si contano oramai sulle dita di una mano, da una pesante svalutazione di capitale scaricata in gran parte sui cittadini tramite le garanzie statali sul capitale della bad bank. Si salva il management, che ricicla se stesso mettendo in curriculum la capacità (più politica che manageriale) di aver protetto gli azionisti dalla diluizione del capitale e i creditori più importanti da perdite eccessive nella ristrutturazione della banca. Si salva il governo, che diventa paladino dell’italianità del sistema bancario limitando nell’arco della sua breve legislatura l’impatto di una ristrutturazione del sistema bancario sul costo del debito pubblico. La patata bollente passerà intanto al prossimo esecutivo. Si salva una parte della classe politica, che sulle commistioni con la governance delle banche ha costruito la sua intoccabilità.

Non si salva però il nostro sistema economico che convive da decenni con “i lacci e lacciuoli” di una parte della classe dirigenziale e una miriade di corporazioni. Non si salva il mercato del lavoro e un tessuto d’imprese sempre meno competitivo, anche a causa dello scarso accesso al credito. Non si salvano i cittadini, che pagheranno comunque i costi di un sistema bancario obsoleto che non finanzia l’innovazione e la crescita. Non si salvano le nuove generazioni di un Paese vecchio incapace di finanziare nuove idee.

Allora, di quali soluzioni dovrebbe occuparsi il nuovo governo? Dovrebbe innanzitutto preoccuparsi un po’ meno del costo del debito, che è certamente influenzato dallo stato del sistema bancario ma maggiormente dal dato macroeconomico. Dovrebbe preoccuparsi invece delle vicende europee, dove l’Italia ha lasciato le riforme per l’unione bancaria nell’Eurozona nelle mani di Francia e Germania. Tra queste riforme c’è proprio quello che servirebbe all’Italia oggi. Un meccanismo unico per la ristrutturazione o liquidazione delle banche, affiancato da un’autorità nazionale e da un fondo europeo, gestito da un’autorità europea, che protegga da subito i conti correnti sotto i 100 mila uro. Tale meccanismo è il passo più importante per riconquistare una parziale neutralità dell’azione politica nel riorganizzare il sistema economico, e quindi anche nella ristrutturazione del sistema bancario. Quando il governo sarà stato capace di fare questo, saremo già a metà dell’opera.

di Diego Valiante
Da Il Fatto Quotidiano del 19 marzo 2014

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