L’esatta portata della blitzkrieg che Matteo Renzi sta portando alla struttura del potere italiano e alle cordate che l’hanno occupato di recente si capirà solo tra qualche tempo, quando il suo governo inizierà a lavorare. Finora si può dire che l’esercito del premier pare volenteroso quanto raccogliticcio, vagli gli obiettivi, spiccioli i metodi. Poco importa. I grandi giornali lo cantano coi toni sincopati che si devono a un campione della velocità: Renzi prepara “una cabina di regia a Palazzo Chigi”, ma mica “quelle robe collegiali da prima Repubblica”, no una cosa snella, in cui si decide “senza perdersi in chiacchiere” e “lontano dai burocrati che rallentano il lavoro” (Corriere della Sera di ieri). Al netto del trasporto amoroso, significa una cosa sola: Renzi dichiara guerra alla tecnostruttura del Tesoro (Ragioneria generale in testa), che – silenziosa – s’attrezza per resistere. Quello che il presidente del Consiglio sta costruendo a Palazzo Chigi, peraltro, più che una “cabina di regia” sembra lo staff di un manager: il frontman girerà il paese due giorni a settimana per ristabilire la comunione spirituale tra governo e popolo, un manipolo di amici fidati a palazzo Chigi amministrerà il paese.

I primi due hanno già preso posizione: il sottosegretario Graziano Delrio, già autore di sontuosa gaffe sulla tassazione dei Bot, e il suo storico collaboratore Mauro Bonaretti, già city manager di Delrio a Reggio Emilia e poi capo di gabinetto agli Affari regionali, ora issato nientemeno che all’ambitissima poltrona di segretario generale di Palazzo Chigi dopo il sacrificio rituale del predecessore il consigliere di Stato Roberto Garofoli. Il curriculum del duo è quello che è, tanto è vero che, destinati al ministero dell’Economia, Delrio-Bonaretti sono stati fermati dal gioco di squadra tra Quirinale e Banca d’Italia per mancanza di titoli. Ora occupano palazzo Chigi e puntano a togliere al Tesoro un bel pezzo del suo potere. Il modo? In primo luogo riportando sotto la presidenza del Consiglio la spending review di Carlo Cottarelli, i cui compiti sono tali e tanti da non escludere sostanzialmente alcun aspetto dell’amministrazione dello Stato a partire dalla riforma della P.A. Il duo già citato potrebbe a breve (stamattina è prevista la nomina dei sottosegretari) essere arricchito dall’arrivo di Yoram Gutgeld, deputato Pd di fede renziana, destinato dai rumors di Transatlantico al dipartimento economico di Palazzo Chigi, struttura che in questi ultimi anni ha perso molta della sua forza. “È una scatola vuota”, è il commento definitivo di un ex dirigente. “Gutgeld? Non si governa mica facendo le presentazioni in power point”, scolpisce una fonte democratica. Non è finita. Sembra che il fedelissimo renziano Luca Lotti sia pronto a occupare il Dipartimento editoria di palazzo Chigi.

Notevole è pure il movimento uguale e contrario iniziato a via XX settembre: lasciato il posto agli uomini nuovi del premier, i lettiani si dirigono al Tesoro sotto l’ala di Pier Carlo Padoan. Si è già trasferito al ministero dell’Economia Fabrizio Pagani, amico d’infanzia di Letta e suo braccio destro per le questioni economiche, mentre sarebbe in arrivo pure il defenestrato Roberto Garofoli, destinato alla poltrona di capo di gabinetto. Uno schieramento che riflette non solo due cordate politiche, ma due antropologie diverse: votato alla sbrigatività e refrattario ai rigidi vincoli della tecnica lo staff renziano, pensoso e con un rispetto quasi religioso dei parametri europei quello asserragliatosi nel ministero che fu di Fabrizio Saccomanni.

Il fatto è che la guerra tra Palazzo Chigi e Tesoro non è in preparazione, è già iniziata. Non è per le uscite spannometriche di Renzi che taglia Irap, Irpef e quant’altro ogni giorno un po’ senza preoccuparsi delle coperture. Il vero schiaffo alla tecnostruttura del ministero dell’Economia è già arrivato sulla vicenda dei debiti commerciali dello Stato: il governo Letta ha pagato finora 22 miliardi con una procedura concordata con Bruxelles (altri 20 miliardi sono stanziati per quest’anno) e gestita direttamente dal Tesoro; Renzi ora si prefigge invece di utilizzare il piano alternativo messo a punto dal presidente di Cassa depositi e prestiti Franco Bassanini: in sostanza sarebbe Cdp ad anticipare a comuni e regioni i circa 60 miliardi che mancano. Oltre alla velocità, dicono i fautori, questa soluzione ha il vantaggio di tenere al riparo i conti pubblici da un aumento di deficit e debito visto che Cdp è fuori dalla P.A. Questo piano era già stato proposto a Mario Monti e a Letta, ma il Tesoro l’aveva fermato in entrambi i casi: secondo via XX Settembre, in questo modo Eurostat finirà per conteggiare l’intero bilancio di Cdp in quello dello Stato con relativa esplosione di debito e deficit. Altro punto di frizione è il ruolo della Ragioneria generale e del suo capo, Daniele Franco, ex Bankitalia voluto da Saccomanni: i renziani fanno sapere che dovrà “ammorbidirsi”. La linea l’ha data lo stesso Bassanini in tv: “Rimettere i burocrati al loro posto”. Non solo: farlo di corsa. Il punto d’arrivo non si sa, ma l’importante è dare l’impressione del movimento.

Da Il Fatto Quotidiano del 27 febbraio 2014

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