Va in archivio anche la seconda puntata del Festival di Sanremo. Non ci giro attorno: una noia pazzesca. Gli highlight della serata sono pochissimi, anche se Mollica nel solito servizio del Tg1 notturno cerca di convincermi del contrario. Non c’è traccia né del pezzo indimenticabile, né della trashata suprema (per quella temo toccherà aspettare venerdì o rivedersi su Youtube lo strepitoso trio Bertè/D’Alessio/Fargetta). Si vivacchia su gag con ritmi da anteguerra, bombole d’ossigeno d’ordinanza accanto al divano e una mezzoretta di un Baglioni (che pareva una fusione tra Christian De Sica, il Mago Silvan e Renato Balestra) francamente evitabile. I giovani al solito si mettono in mostra con pezzi – se possibile – ancor più anacronistici dei colleghi “anziani”. Zibba con la sua canzone è già in mood primo maggio, mentre Diodato – altro miracolato finalista tra i giovani – indossando una maglietta di Daniel Johnston è l’indie che si fa riconoscere ovunque.

Ah intendiamoci: tra i vip non è che vada così meglio eh. Renga viene puntualmente scongelato per la kermesse e fa sempre i soliti due pezzi d’avanguardia pura. Decisamente uno a cui piace rischiare. Voto 3, salvato al solito dalla bellissima voce che si ritrova. Giuliano Palma sale sul palco e pensavo che a Sanremo fosse vietato fare cover. Voto 4. Anche Noemi che vorrebbe incarnare l’animo rock del festival, finisce con l’assomigliare (vista anche l’acconciatura) a un micio post-sterilizzazione, con due stecche non da poco. Urla molto ma graffia pochissimo, voto 3. La sorpresa arriva con Rubino e la sua “Ora” un pop trasognato vellutatissimo e un po’ sixties non così distante da Elvis Costello. Banalotta e noiosa la seconda, ma un 6 complessivo ci sta. Poi di nuovo l’abisso con Rosalino Cellamare/Ron, che cita “Singing In The Rain” e ci affonda ancora nel motivetto pop-rock che eviteremmo volentieri di incontrare tra cent’anni. Poi, per ultimo, Riccardo Sinigallia che, dato dagli scommettitori 1:1, porta a casa la partita del pezzo più bello del festival a mani bassissime. “Prima di andare via” va di fingerpicking e scie d’archi alla Tiromancino, suo riconoscibilissimo marchio di fabbrica che, del gruppo di Zampaglione, era membro e paroliere. Quasi unica nota davvero degna in una palude aridissima, 7 abbondante.

Nel mezzo? Rufus Wainwright presentato come una semidivinità (e si “riduce” a cantare i Beatles) e le gemelle Kessler a completare il reparto geriatrico del festival. Sbadigli moltissimi, fortunatamente – oltre all’ubiquo Marino Bartoletti – c’hanno pensato i papaboys a ravvivarmi la serata. Ricordo che la loro quota l’hanno già avuta. 

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