Il mio primo computer fu un Apple Macintosh. Non potevo proprio andare in nessun luogo senza il mio piccolo parallelepipedo: erano gli anni 1980 e ancora non c’erano i computer portatili ma la leggerezza del Mac, la sua compattezza e l’amichevolezza del suo software ne facevano un amico da cui non separarsi mai. Se d’estate mi spostavo al mare, era lui il primo ad entrare in auto. Il mio amico, appoggiato con delicatezza sul pianale, occupava il posto dietro la guida ed io personalmente mi accertavo con meticolosità che lo schienale del sedile fosse calibrato in modo da esercitare la giusta pressione – né troppo né poco – in modo che non soffrisse, ma neppure potesse spostarsi per effetto di una frenata. Fui costretto, mio malgrado, a tradirlo solo quando furono messi in commercio i veri PC portatili, ma tutto questo non avvenne senza una pena sincera e soltanto quando non lo considerai più evitabile.

Poi Apple Inc. entrò in crisi di idee, prodotti e strategie e, quando risorse, non era più la stessa. L’attitudine libertaria della Apple prima maniera era completamente svanita. Quella Internet company aveva imparato la lezione: era rinata infiammata dallo “spirto guerriero” del monopolista OTT (over-the-top) e come tale cominciò ben presto a comportarsi. Il modello di business non era più quello della frizzante start-up di giovani che realizzano, contro tutto e tutti, un’idea-prodotto vincente nel loro garage, ma di un gigante dei servizi che incatena i clienti con raffinate tecniche di marketing, profilandoli, segmentandoli e tariffandoli. Fornendo loro contenuti pregevoli ma ottenuti dalle Major in esclusiva o a condizioni di favore per la Rete e attuando modelli commerciali che evitano accuratamente la concorrenza. Nascono così, con questa nuova Apple risorta dalle ceneri, i “walled garden”, modo ecologico e floreale, ingannevolmente simpatico, per esprimere una spietata policy di mercato che vuole fare fuori tutti, senza neppure cominciare a giocare la partita.

È una strategia vincente, eccome! Quell’impresa scalcinata, in mano a dei sognatori un po’ litigiosi che l’avevano condotta ormai sull’orlo del fallimento ai primi anni 2000, diviene in pochi anni la prima Corporation al mondo per capitalizzazione in Borsa. E quei giovani libertari, un po’ “sfigati” ma simpatici e geniali, diventano degli spietati uomini d’affari che si sanno destreggiare con grande furbizia nelle pieghe di sistemi antitrust dal ventre molliccio delle democrazie occidentali, più esperti nel guardare i capelli delle TLC che le travi degli OTT: costruiscono, così, in pochi anni un potentissimo monopolio mondiale, anche facendo astutamente leva, nel tenero cuoricino delle opinioni pubbliche, sulle reminiscenze di quel passato epico e creativo, che sanno abilmente sfruttare.

Oggi Apple Inc. vale più o meno 500 miliardi di dollari a Wall Street e combatte, anno dopo anno, con Exxon per occupare il primo posto per capitalizzazione al mondo.

Nel frattempo, si accorda con Samsung per realizzare i propri smartphone, che spesso i coreani arricchiscono con non trascurabile valore aggiunto tecnologico, ma i non più giovani leoni del colosso statunitense iniziano a portarli, discutibilmente, in tribunale per violazione delle norme internazionali sulla proprietà intellettuale e, qualche volta, persino vincono (negli Usa).

Non compro più nulla con sovrimpresse mele smozzicate da quei tempi neolitici del mio amato Mac. Non do ascolto a chi mi pizzica l’arpa per l’iPhone o l’iPad, come pure per cantare le lodi dei sottilissimi ed eleganti portatili da Cupertino, Silicon Valley, nella splendida California. A volte ripenso, con un po’ di nostalgia al mio compagno di gioventù, il grande Mac e provo un sottile – ma profondo – disagio nei riguardi di chi sconfessa le proprie radici, principalmente se gloriose. L’amore per la concorrenza, quel sentirsi “David vs. Goliath” era l’essenza di quel mondo antico.

Ingrandirsi a dismisura in virtuali giardini protetti senza che le Autorità Antitrust obiettino, portare in tribunale i propri fornitori (e perdere le cause fuori dagli Usa) non lede la reputazione: ma, forse, ora la più grande Internet company del mondo potrebbe avere commesso un serio errore, tale da risvegliare, pericolosamente, i suoi clienti dall’ipnosi fatta di scatoline accattivanti (i giovani) e ricordi dei bei tempi andati (i loro nonni). È di un paio di giorni fa la notizia che Apple ha deciso di non fornire più ai suoi clienti gli aggiornamenti della app che consente di scaricare sui propri iPhone il borsellino (il wallet) del sistema Bitcoin. Una scelta logica, consequenziale, per un monopolista che coltiva il proprio giardinetto recintato di applicazioni (e che, forse, vuole difendere il suo sistema di pagamento online, secondo i più maligni).

Sono personalmente contrario ai pensieri violenti (figurarsi i gesti, quantunque simbolici), come pure non posso condividere qualsivoglia azione luddista di chi prende di mira le imprese che lavorano e producono. Ma, devo ammetterlo, non ho potuto evitare di sorridere quando ho visto alcuni video che mostravano numerosi proprietari, americani arrabbiati, che li fracassavano a fucilate o con il machete quei loro costosi iPhone! Non fatelo, mi raccomando, ma di sicuro anche a voi che mi leggete non potrà sfuggire un sorriso, guardando certe immagini inconsuete.

Articolo Precedente

Datagate, la “guerra sporca” dei servizi inglesi contro gli hacker di Anonymous

next
Articolo Successivo

App: nasce Makeitapp, il social network per creativi e sviluppatori

next