Sono ormai mesi che sentiamo che il 2014 sarà l’anno degli occhiali di Google, dell’orologio collegato al cellulare, e, più in generale, dell’Internet delle cose. Ma cos’è l’Internet delle cose? Juan Carlos De Martin, cofondatore del Centro Nexa su Internet & Società, spiega su Eta Beta che è una versione di Internet che oltre a connettere le persone, connette anche dispositivi portatili e sensori. Non soltanto le persone comunicano con altre persone, i dispositivi comunicano con le persone, ma soprattutto i dispositivi comunicano tra di loro.

Ad esempio l’orologio permetterà di leggere i messaggi arrivati nel cellulare in tasca. Tutto viene reso più immediato, sempre più veloce. Tutto sembra divenire più semplice, in realtà diventa tutto più complesso. Il controllo dei nostri pensieri, dei nostri spostamenti, diventa sempre più invasivo, perché questi dispositivi sono destinati ad essere utilizzati sempre di più durante la giornata. Basta fare il confronto fra quanto utilizziamo il computer e quanto utilizziamo l’orologio. E così anche per tutti gli altri oggetti destinati a renderci la vita più semplice, a spingerci a tenerli sempre con noi, e, quindi, ad essere monitorati sempre di più. Noi magari nemmeno ce ne accorgiamo, dato che quasi nessuno viene a chiederci il consenso per la profilazione dei nostri dati personali.

Non molti lo sanno, ma esiste un fortissimo divario fra gli obblighi delle imprese italiane e quelli delle imprese americane. Il Garante della Privacy italiano impone alle imprese nostrane non solo di richiedere ai propri clienti di barrare obbligatoriamente la casella “Ho letto l’informativa sul trattamento dei miei dati personali”, ma anche di ottenere da tali clienti un consenso specifico – e facoltativo – per comunicazioni con finalità di marketing e un ulteriore distinto consenso – sempre facoltativo – per profilarli, ossia per raccogliere tutti i dati relativi alle loro azioni. Invece, le aziende americane, fra cui Facebook Google, non essendo soggette alla legge sulla privacy italiana, non devono richiedere i due ulteriori consensi per la profilazione e per le comunicazioni con finalità di marketing, ma devono semplicemente “imporre” al cliente la lettura dell’informativa (secondo alcuni studi ci potrebbe volere un mese per leggerla). In questo modo hanno la possibilità di raccogliere una moltitudine di dati essenziali per migliorare i propri servizi e, soprattutto, per rendere più mirate, e quindi più remunerative, le pubblicità (un business miliardario). Oltretutto, molti utenti italiani sono indotti a fornire numerosi dati personali nella convinzione che se l’impresa volesse usarli per profilarli o per attività di marketing, l’impresa dovrebbe prima ottenere loro il consenso. Purtroppo non è così!

Il fatto che la tecnologia sia più veloce della regolamentazione è una vecchia e innegabile storia: è il caso del Regolamento europeo sulla Privacy – un tentativo di riforma colpito e, pare, affondato – che avrebbe dovuto tutelare maggiormente i cittadini europei. La necessità del consenso alla profilazione è uno dei grandi temi discussi e affossati dalle lobby dei colossi americani.

Nel suo recente messaggio di Natale trasmesso dal canale britannico Channel 4, Edward Snowden, colui che ha avuto il coraggio di rivelare l’esistenza del sistema americano di controllo delle comunicazioni dei cittadini di tutto il mondo, ha provato a metterci in guardia: “Un bambino che nasce oggi crescerà senza alcun senso della privacy. Non saprà mai cosa vuol dire avere un momento privato, per se stesso, non registrato. Un pensiero non analizzato”. La nostra privacy è fondamentale perché è ciò che ci permette di scegliere liberamente chi siamo e chi vogliamo diventare.

In teoria in Italia sembriamo esserne consapevoli, ma le nostre azioni dimostrano il contrario: a fronte del 96% degli italiani che dichiara di considerare inviolabile il diritto alla privacy, il 36,7% non ricorre ad alcuno strumento di tutela mentre naviga in internet.

In mancanza di un’intensa attività di sensibilizzazione sull’importanza della privacy, nonché di una regolamentazione uguale per tutti, la previsione di Snowden è inesorabilmente destinata ad avverarsi. Le imprese sanno che è solo questione di tempo, che in cambio di un servizio gratuito che gli semplifica la vita gli utenti sono disposti a dare tutto, a dire tutto. Soprattutto sfruttano il cambio dei Termini di utilizzo senza alcuna notifica all’utente. Emblematico il messaggio nella sezione Privacy di Facebook relativa alle Inserzioni: “Facebook non consente alle applicazioni di terzi e alle reti pubblicitarie di usare il tuo nome o la tua immagine nelle inserzioni. Se lo dovessimo consentire in futuro, sarai tu a indicare quali delle tue informazioni potranno essere usate scegliendo un’impostazione specifica”. Indovina qual è l’impostazione scelta per te di default da Facebook? “Se dovesse accadere in futuro, mostra le mie informazioni ai miei amici”. In pratica – a meno che tu non vada nella sezione Privacy a modificare le impostazioni che tu non hai scelto e cambiarle in “mostra a nessuno” – Facebook potrebbe permettere in futuro che nelle inserzioni di terzi visualizzate da tuoi amici ci sia il tuo nome o la tua immagine per incentivarli a comprare un prodotto o servizio. E così potremo davvero dire addio al principio del consenso effettivo e, quindi, al diritto alla privacy.

Le imprese americane si sono già scontrate con la reazione degli utenti alla possibilità che le loro foto vengano sfruttate economicamente (si veda il caso Pinterest e anche il controverso caso di Instagram). Quindi nei prossimi giorni possiamo stare tranquilli, ma a fine anno?

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