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Vietnam, prove di occidentalizzazione

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Mio nonno (riposi in pace) quando tornavo da qualche posto che per lui era solo un punto ben collocato su una mappa geografica mi chiedeva sempre: li vendono i fiori? Per lui, classe 1911, i fiorai ambulanti erano l’indicatore del benessere minimo di una società.

Oggi le strade di Hanoi, sono piene di ragazze in bicicletta che vendono fiori, ma soprattutto motorini. La città ha 6,5 milioni di abitanti e quasi 4 milioni di due ruote. Il rumore assordante dei clacson e la guida caotica dei centauri sono la linfa che corre nel sangue della nascente classe media. Si calcola che nel 2020 un terzo della popolazione vietnamita farà parte di questa fascia di consumatori urbani.

Dal 2007, quando è entrato nel Wto, il Pil del paese cresce. Le città si sono trasformate in mercati all’aperto di piumini e capi di vestiario occidentali. E le periferie sono un susseguirsi di fabbriche senza soluzione di continuità: Canon, Foxconn, Clarks, Samsung…

La ricetta del Partito comunista (come in Cina, unico) è stata simile a quella cinese. Un socialismo che si è aperto al mercato, perché l’unica speranza che il Partito ha di mantenersi in vita è quella che il paese continui a crescere. E come in Cina affronta le stesse problematiche.

Aziende di Stato che detengono  monopoli, bolle immobiliari, corruzione endemica, rallentamento della crescita e degrado ambientale. Ma soprattutto l’inquietante baratro che divide campagne e città (dove i salari sono almeno cinque volte più alti). Questo è quello che salta agli occhi e questo, forse, sarà il nodo fondamentale da sciogliere nei prossimi anni.

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