I fatti di questi giorni riguardanti il possibile declassamento del rating di Generali ad opera della società Standard and Poor’s fanno rabbrividire per una serie di ragioni. La prima è la più ovvia: l’iniquità della decisione e della base di calcolo. Non si è mai visto che un’impresa, peraltro sana, che detiene nel proprio portafogli titoli del debito pubblico dello Stato Sovrano nel quale risiede venga per questo considerata a rischio. Il secondo motivo è legato all’obiettività dell’operazione. Se si dovesse valutare ogni compagnia di assicurazioni o intermediario finanziario del mondo sulla base del fatto che nei loro bilanci figurino titoli di Stato, soprattutto a lungo termine, dovrebbero tutti essere sottoposti a credit watch.

E allora qui la domanda è a doppio senso. Posto che possa essere corretto il processo di valutazione, perché solo Generali? Ma soprattutto, nel caso di specie, perché un giorno prima della presentazione alla comunità finanziaria internazionale di un bilancio positivo e di iniziative strategiche di crescita?

Il sospetto di manovre speculative e di interessi in conflitto, d’altronde più volte e in più sedi evidenziati a carico delle società di rating, è più che legittimo. Non è dietrologia, ma preme a chi scrive sottolineare unicamente gli effetti (solo) negativi per il nostro Paese nel momento in cui il Governo sta lavorando ad una manovra delicatissima sui conti dello stato. Un vantaggio competitivo dato da Standard and Poor’s alla criminalità finanziaria, le cui imprese e gli esperti di finanza “deviata” non attendevano altro.

In momenti di crisi di liquidità e di investimenti è notorio che la mafia trova strade spianate per l’immissione sul mercato ufficiale di capitali di provenienza illecita: non concediamole il rating elevato. È auspicabile che finalmente gli organismi internazionali della politica e della finanza si facciano carico di avviare indagini decise ed approfondite sugli interessi che gravitano intorno alle società di rating.

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