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Putin, le Pussy Riot, Cristian e il carcere delle coscienze

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Mi unisco al coro delle donne che hanno seguito Putin nei suoi spostamenti di ieri chiedendo la liberazione delle Pussy Riot. Il punk è nato suonando la protesta. Ha fatto la storia del rock l’immagine dei Sex Pistols che cantano God save the queen su una barca lungo il Tamigi in occasione del giubileo d’argento della regina Elisabetta nel giugno ’77. Certo, il potere costituito reagì. Ma non si può finire in un carcere della Siberia per una canzone.

Nadia, ovvero Nadezhda Tolokonnikova, ha cantato con le sue compagne mascherate, la preghiera anti-Putin il 21 febbraio 2012 nella cattedrale del Cristo Salvatore a Mosca. Il 17 agosto è stata condannata assieme a Yekaterina Samutsevich e Maria Alyokhina a scontare due anni di carcere. Yekaterina è stata poi scarcerata. Le altre due sono ancora in prigione. Nadia, dopo uno sciopero della fame impegnativo, è stata spedita in Siberia. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato varie volte la Russia in relazione alle condizioni di vita nelle galere. Siamo in buona compagnia, d’altra parte ha fatto lo stesso con noi.

La scorsa settimana abbiamo dedicato alle Pussy Riot una puntata di “Jailhouse rock”, la trasmissione radiofonica condotta da Patrizio Gonnella e da me per parlare di rock e di carcere. I nostri collaboratori musicisti detenuti del carcere di Bollate ci hanno mandato una bellissima loro cover di Putin lights up the fires! È stata con noi in diretta la mamma di Cristian D’Alessandro, il ragazzo italiano attivista di Greenpeace incarcerato in Russia e ora un po’ più libero su cauzione (non può comunque lasciare il Paese) in attesa del processo. Raffaella Ruggiero vive in un mare di ansia per suo figlio, accusato per una pacifica protesta. Anche lui un prigioniero di coscienza, come Amnesty International ha parlato delle Pussy Riot.

Putin, non si imprigionano le coscienze. E non si imprigiona il rock. Liberali tutti.

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