L’Italia è ufficialmente entrata a nel club europeo dei droni. I ministri della Difesa di Italia, Francia, Germania, Grecia, Spagna, Olanda e Polonia hanno firmato nei giorni scorsi a Bruxelles un protocollo d’intesa per cooperare nella produzione di aerei da guerra senza pilota. Una tecnologia alla quale le industrie militari europee, compresa Finmeccanica, stanno lavorando da tempo (in particolare nel progetto del cacciabombardiere automatico stealth Neuron, destinato a soppiantare anche gli F-35) e che i militari considerano irrinunciabile (“una vera religione” l’ha definita il Capo di stato maggiore dell’Aeronautica, generale Preziosa). Ma è anche una tecnologia che suscita forti timori per i suoi inquietanti e rapidi sviluppi verso la creazione di armi autonome e robotizzate, dotate cioè della capacità di selezionare e attaccare i bersagli senza intervento umano. La pensano così organizzazioni per i diritti umani come Human Rights Watch e Premi Nobel per la pace come l’americana Jody Williams – l’artefice della messa al bando delle mine antiuomo – che insieme hanno lanciato una campagna mondiale per bandiere preventivamente lo sviluppo di quelli che chiamano i ‘robot killer’ (www.stopkillerrobots.org). “Bisogna agire ora, prima che queste tecnologie militari sbarchino nei saloni internazionali di difesa e sui campi di battaglia, prima che entrino in ballo interessi economici e politici troppo forti”, spiega la Williams a ilfattoquotidiano.it.

“I vertici militari dei principali paesi, Stati Uniti in testa, vedono nella robotica la nuova frontiera della difesa: il Pentagono, nella sua ‘Roadmap per i sistemi unmanned 2011- 2036’, prefigura una graduale riduzione dell’intervento umano con l’obiettivo finale di raggiungere la piena autonomia di questi armamenti. Ma già oggi vediamo all’opera i precursori dei robot killer: contraeree automatiche come il sistema Phalanx americano o l’Iron Dome isrealiano, robot-sentinella come il Samsung Sgr1 sudcoreano o il Sentry Tech israeliano, blindati telecomandati come il Guardium, sempre israeliano, ma sopratutto gli ormai famosi droni Predator e Repaer, sempre più utilizzati dagli Stati Uniti per effettuare raid missilistici in Afghanistan, Pakistan, Yemen e altrove”. 

“Tra le principali industrie militari mondiali – prosegue il Premio Nobel – è già partita una serrata competizione per la sperimentazione di sistemi d’arma robotizzati, ed è già ad uno stadio molto avanzato. Date un’occhiata all’androide Atlas o ai quadrupedi BigDog e Cheetah prodotti dalla Boston Dynamics per il Darpa (l’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa americano incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, ndr), o ai prototipi sperimentali dei futuri droni: veri e propri cacciabombardieri completamente automatizzati che decollano, colpiscono l’obiettivo e tornano alla base senza alcun intervento umano, come l’X-47B americano della Northrop Grumman (nella foto), il Taranis britannico della Bae Systems o il Neuron sviluppato da diverse aziende europee, anche italiane”. 

Alenia Aermacchi (Finmeccanica) partecipa con il 22 per cento al consorzio europeo per il superbombardiere Neuron – guidato dalla francese Dassault con il 50 per cento – e capeggia un pool di altre aziende italiane coinvolte nel progetto, quali Selex Galileo (sempre Finmeccanica), Microtecnica, Ase, Tema, Oma e Ufi Filters. E il settore aeronautico non è il solo in cui l’industria militare italiana sta facendo sperimentazione robotica: la Oto Melara (Finmeccanica) produce il robot-sentinella Trp2: un piccolo cingolato armato telecomandato, appositamente creato per proteggere le basi del contingente italiano impegnato sul fronte afgano senza mettere a rischio uomini in pattuglia.  

“La riduzione dei rischi di perdite umane tra i soldati e la conseguente ricaduta positiva sull’opinione pubblica interna sono il principale argomento usato dai militari per giustificare l’impiego di armi remotizzate o robotizzate, ma questo – avverte la Williams – comporta anche una maggior propensione dei nostri governanti a optare per l’uso della forza militare e, in ultima analisi, una maggior probabilità di proliferazione di conflitti. Armi di questo tipo non porterebbero solo più guerre, ma anche guerre con maggior rischio di crimini e violazioni del diritto umanitario: se un robot killer uccide per errore un civile, chi va ritenuto responsabile? L’azienda produttrice? Il programmatore? Il generale che lo ha volto impiegare? Questa confusione fa venire meno il deterrente psicologico a commettere errori e violazioni e a farne le spese, come al solito, sarebbero i civili. La guerra è già di per sé disumana: se a combatterla saranno dei robot quali orrori dobbiamo aspettarci?”.  

Il Premio Nobel, che nei giorni scorsi ho incontrato sia il premier Letta che il ministro degli Esteri Bonino, conclude con un appello al governo italiano: “L’Italia era tra i principali produttori mondiali di mine antiuomo, ma poi è stata tra i più attivi sostenitori della loro messa al bando. Anche se oggi la vostra industria militare partecipa allo sviluppo dei robot killer, mi auguro che a livello diplomatico il vostro governo si impegni attivamente per bandire anche questi nuovi strumenti di morte, come già sta dimostrando di voler fare nell’ambito della Convenzione Onu sulle armi convenzionali di Ginevra, che proprio oggi ha deciso di inserire le armi totalmente autonome nel programma dei suoi lavori: un primo importante risultato della nostra campagna”.

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