Il satellite Goce non ha fatto in tempo ad andare in pezzi sull’Atlantico, che un satellite-spia giapponese da una tonnellata si prepara a cadere sulla Terra.

“Studiare come un satellite in caduta possa frammentarsi nell’impatto con l’atmosfera è difficile”, osserva Ettore Perozzi, responsabile delle operazioni del Centro di coordinamento del rischio asteroidi dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Per questo, come è accaduto con Goce, c’è un susseguirsi di modelli basati sui dati orbitali, che vengono progressivamente corretti a mano a mano che giungono nuovi dati”. Questa è la procedura ed equivale a quella seguita per calcolare la caduta dei meteoriti.

Si calcola che ogni anno cadono sulla Terra decine di grandi oggetti, pesanti complessivamente centinaia di tonnellate. La maggior parte brucia nell’impatto con l’atmosfera, ma frammenti per centinaia di chilogrammi arrivano a Terra. Come mai colpiscono tanto raramente le zone popolate? “La Terra è coperta per due terzi da acqua – spiega Perozzi – e solo il 15% delle terre emerse sono popolate. Radunando idealmente la popolazione del pianeta in un punto, vista dall’alto occuperebbe una superficie complessiva inferiore a un centomillesimo della superficie terreste”. Un bersaglio davvero piccolo.

Bisogna poi considerare che “non ci sono satelliti ‘impazziti’, ma solo satelliti indirizzati verso il rientro”, spiega Alessandro Rossi, dell’Istituto di Fisica applicata del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) a Firenze. “Nel caso di Goce, l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha deciso di rendere pubblico il rientro e di fornire informazioni, “ma la maggior parte dei proprietari dei satelliti non fa altrettanto”.

Poiché lo spazio è sovraffollato di oggetti, si cerca di riportare a Terra i satelliti che hanno completato le loro missioni: si cerca di portare fuori il satellite dalla sua orbita e di avvicinarlo a Terra, ma accompagnarlo passo dopo passo, accendendo i motori, richiede enormi quantità di carburante ed è perciò molto costoso. “Per questo – spiega Rossi – le manovre controllate si fanno solo in casi molto rari, come è accaduto per la vecchia stazione spaziale russa Mir o per il laboratorio americano SkyLab”.

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