Il “decreto del fare” introduce alcune novità sul trasporto ferroviario che potenzialmente potrebbero essere positive. Ma che così come sono formulate finiranno per essere negative. Ecco perché si tratta di un’occasione in parte sprecata. Il braccio di ferro sull’Autorità dei trasporti.                    

Treni, concorrenza e spesa

Il decreto legge 69 (cosiddetto “del fare”) all’articolo 24 introduce, in materia di trasporto ferroviario, alcune innovazioni potenzialmente positive, ma in concreto negative. Salvo modifiche in sede di conversione, resta a mio avviso un’occasione in parte sprecata.

Per un verso, la norma si occupa della regolazione dei pedaggi di accesso alla infrastruttura, modificando il vecchio decreto legislativo 188/2003; per altro verso, affronta la questione della concorrenza in bacini di traffico serviti in esclusiva con contratti di servizio, materia regolamentata dalla legge 99/2009.
Parto dal secondo punto, con una premessa che può essere utile a inquadrare la questione. Le ragioni di fondo per l’affidamento di servizi di trasporto in esclusiva a un operatore (prescindo dalle modalità di affidamento) si possono ricondurre a due: presenza di condizioni di monopolio naturale oppure economia di risorse pubbliche. La prima delle due ragioni è per ipotesi esclusa dalla norma (oltre che dall’economia e dal buon senso, almeno per dimensioni vaste di affidamenti). Quanto alla seconda, l’affidamento riguarda servizi di trasporto che, per linee e per orario, possono essere in parte redditizi e in parte no, cosicché i primi contribuiscono a coprire parte delle perdite dei secondi e l’ente concedente può così limitarsi a versare come compensazione il saldo netto. In queste condizioni, l’entrata di nuovi operatori in sovrapposizione con il gestore pubblico – verosimilmente solo sui segmenti ricchi – avrebbe impatto negativo sull’equilibrio economico del contratto di servizio e si tradurrebbe dunque in maggiori compensazioni pubbliche.
Seguendo un suggerimento della Commissione europea, la nuova norma prevede che un operatore può essere autorizzato a entrare sul mercato se versa all’autorità concedente, come canone, un importo pari al costo netto incrementale del gestore, sì da compensare il maggior onere della finanza pubblica.
Al di là di una serie di imprecisioni nel testo della norma, la ratio è del tutto condivisibile. Se il nuovo entrante è abbastanza efficiente da poter “risarcire il danno” e al tempo stesso guadagnare, si avrà concorrenza nel mercato, migliori servizi e nessun onere aggiuntivo per la finanza pubblica.
Il diavolo però si annida nei particolari. Il più eclatante è che il nuovo entrante non sarà tenuto a pagare il canone se il suo modello di esercizio prevede fermate a distanza superiore a cento chilometri (e va bene). Ma anche se, si badi, “i livelli tariffari applicati risultino di almeno il 20 per cento superiori a quelli dei servizi a committenza pubblica”. Insomma, è vietato all’operatore privato fare concorrenza di prezzo al gestore pubblico. In altre parole, dato che in questo caso la competitività del nuovo entrante non è frenata dall’aumento dei suoi costi via canone, almeno – vivaddio! – che lo sia imponendogli prezzi minimi. Evidentemente il tutto a vantaggio degli utenti. Una norma due volte illegittima sotto il profilo del diritto della concorrenza: falsa la concorrenza con l’impresa a committenza pubblica e, nel caso sul mercato entrassero più operatori “indipendenti”, falserebbe la concorrenza anche fra di loro. C’è da sperare che l’Autorità antitrust intervenga, segnalando l’“anomalia” o, se la norma fosse convertita, invocando il potere, che le è stato conferito dalla Corte di giustizia europea, di disapplicare norme nazionali che violano quelle comunitarie sulla concorrenza.

Le occasioni mancate

Vi sono poi almeno due occasioni mancate. La prima: come si fa a stabilire se e quanto l’equilibrio economico del contratto di servizio viene compromesso e, di conseguenza, a quanto deve ammontare il canone di accesso al mercato? Servirebbe (vexata quaestio) che il gestore pubblico tenesse una contabilità dei costi e ricavi per linea servita, fasce orarie, eccetera. La norma (nessun’altra norma finora) nulla prevede al riguardo, cosicché è da pensare che il principio resterà sulla carta o darà alimento a contenziosi a non finire. Incidentalmente, in questo modo si potrebbe anche verificare se effettivamente esistono servizi redditizi all’interno del contratto di servizio: se così non fosse, infatti, il nuovo entrante farebbe solo loss skimming, dunque un piacere al gestore pubblico e all’ente concedente.
Sempre incidentalmente, introdurre quest’obbligo avrebbe peraltro posto riparo a una pari lacuna dell’articolo 16-bis del decreto legge 95/2012, quello che impone agli enti locali dirazionalizzare i servizi di trasporto in funzione della domanda e allo scopo di aumentare il margine di copertura dei costi con i ricavi. Ancora: come si fa a scegliere se non si conoscono i conti delle linee da sopprimere o da potenziare? Simmetricamente, come si fa a calcolare l’impatto delle soppressioni/potenziamenti sui contratti di servizio in essere? Immaginiamo il vespaio che si creerà.
Infine una questione di fondo: una volta sanata e completata, la norma statuisce un principio sano, che andrebbe generalizzato a tutti i servizio di trasporto – strada, ferro e mare – esercitati in obbligo di servizio pubblico, anziché restare confinato nel perimetro del solo trasporto ferroviario.

La questione del canone

Rapidamente vengo alla norma sul canone. Anche qui prescindo da ambiguità e imprecisioni gravi, per focalizzarmi su due soli punti.
In campo merci, è rituale sostenere che il traffico andrebbe trasferito dalla strada alla ferrovia. La “politica industriale” al riguardo è finora salomonicamente ricorsa alfinanziamento diretto di entrambe le modalità, con contratti di servizio per le ferrovie e trasferimenti all’autotrasporto: un approccio cerchiobottista di sicura inefficacia e di sicura violazione delle norme in materia di aiuti di Stato. Senza aspettarsi effetti miracolistici, la leva dei pedaggi è invece fondamentale per promuovere il riequilibrio modale. In campo ferroviario, la norma potrebbe essere occasione per introdurre criteri di modularità del pedaggio – per determinate distanze, tipologie di merci, e aree geografiche – con una scontistica che potrebbe addirittura arrivare a pedaggi negativi: una misura non restrittiva della concorrenza e un aiuto di Stato facile da contrattare a Bruxelles. Magari finanziando l’onere con l’introduzione di pedaggi autostradali, su tratte alla portata delle ferrovie, progressivi con l’aumentare della distanza. Dal momento che siamo importatori netti di servizi di autotrasporto, in questo modo riusciremmo a scaricare parte degli oneri su operatori “stranieri”.
Infine, la norma attribuisce al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti la funzione di stabilire criteri e procedure per l’assegnazione della capacità della rete ferroviaria, la determinazione del pedaggio e altro. Precisamente (sembra) le funzioni che la legge istitutiva attribuiva all’Autorità dei trasporti. Verrebbe quasi da pensare che il braccio di ferro fra Governo e burocrazie ministeriali, che ha contrassegnato l’iter di quella legge e che è visibile nelle sue svariate ambiguità, seguiti, incessante e operoso.     

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