new-york-gay-prideWythe Avenue, alle pendici del Williamsburg Bridge. Non è il Queensboro, eppure lo scenario reclama Il grande Gatsby. Anche da qui, infatti, la città è sempre come la si vedesse per “la prima volta, nella sua prima sfrenata promessa di tutti i misteri e le bellezze del mondo”. Così la si riscopre quando albeggia, dalle altane gremite dei locali, dove torme di hipster intorpiditi scalpicciano al disfarsi della notte. Ripropongono Incroyables et Merveilleuses nella New York del Direttorio bloomberghiano. Svagati e politicamente agnostici, in loro tutto è costruito anzitutto per dar prova di non esserlo. Di là del fiume, intanto, s’innalzano le enormi teche di Manhattan, la città di vetro dove svetta, altera, la guglia dell’Empire listato a festa. Lo ammanta un prisma arcobaleno ripartito dai colori del Gay Pride ‒ e se è vero che ogni rivoluzione consiste essenzialmente nel risignificare antichi simboli, allora proprio di rivoluzione si tratta, visto che l’Empire State, effigie stessa del potere istituzionale, ora parteggia per i diritti LGBT.

Il giorno dopo sono al Greenwich, tra Christopher e Hudson Street, dove dilaga orgogliosa la parata. Sfilano i carrozzoni delle drag queen, che si sbracciano nella rumba elettro-pop. Le soverchiano cofane settecentesce, cotonate mousse fosforescenti sempre in procinto di scollarsi. Poi, nella bagarre, è la volta dei culturisti tarantati i quali, in salopette ed elmetto da carpentiere, ripropongono i sempiterni Village People. Segue una capoeira improvvisata, in un tripudio di lustrini ed abiti filanti, tra cui campeggiano gli slogan dell’amore riscattato: “Gay by birth, fabulous by choice”; “Why be afraid to be enGayged?”.

L’afa agglutina gli odori ‒ ed anche i corpi di quelli che, oltre le transenne, provano a districarsi nella calca. Mi colpiscono dei calzari di peluche, immancabilmente fucsia, impiastrati dal paciugo sottostante. Risalendo la sagoma della proprietaria scopro che, oltre le giarrettiere tatuate e un perizoma miracolosamente ancora inesploso, s’estende un reticolo di piume da cui capolina, con ilare prorompenza, un seno che nemmeno la Tabaccaia di Amarcord. L’accompagna un signore dalla cresta smerigliata, sui sessanta, il quale, costipato nel suo tutino pellucido, le ali glacialmente psichedeliche, sfarina cipria sugli astanti come un angelico (quanto spettrale) Brian Slade riconvocato dal fastoso Velvet Goldmine. M’accodo così all’estrosa coppia, il perché non saprei dirlo ‒ sarà che, a loro modo, mi paiono magnifici. Mentre li seguo, anzi, poco fiero dei miei modestissimi paramenti borghesi, mi compro una cravatta iridescente ‒ per la parrucca non sono ancora pronto ‒ giusto per variegare l’ordinario. Soprappensiero, quasi non m’accorgo di trovarmi dinnanzi allo Stonewall, il locale coi mattoni a facciavista dove tutto ha avuto inizio. Era la mattina del 28 giugno 1969 (di qui la data del Gay Pride): la polizia irruppe nel bar coi soliti intenti gratuitamente persecutori, ma la clientela rispose alla violenza e si ribellò. Ne uscì una sollevazione epocale: migliaia di persone in lotta per affermare perentoriamente i propri diritti. Sembra sia trascorso un secolo. Oggi la polizia è parte integrante della sarabanda. La realtà sconfina in un clip di George Michael: qualche agente accenna addirittura un passo di danza, ancheggia al ritmo della baraonda mentre i compari, sornioni e un po’ sbracati, sorridono con malcelata approvazione. Già, perché l’evento è un rito collettivo trasversale, onnipervasivo. Non si tratta delle semplici rivendicazioni di un gruppo numericamente ristretto, ma della trasformazione di un’intera società tramite una lotta la cui genesi è solo accidentalmente minoritaria. È ciò che accade quando una minoranza diviene qualitativamente maggioritaria. ‒ La quantità non c’entra nulla: siamo tutti gay; tutti siamo lesbiche, bisessuali, transessuali ‒. Nell’affermazione della ‘loro’ libertà è in gioco l’invenzione ‒ audace esercizio quotidiano ‒ dell’imponderabile libertà di ognuno.

Ma che cos’è, allora, la festa del Gay Pride, visibilio di piacere e stravaganza, di camouflage e provocazioni dissacranti? Magari non convincerà nessuno, ma mi pare plausibile rispondere rileggendo alcuni passaggi di Bachtin dedicati al carnevale (che recupero dal famoso libro su Rabelais e la cultura popolare): “[…] nella seconda metà del XIX secolo molti studiosi tedeschi sostennero la tesi della origine germanica della parola ‘carnevale’, facendola derivare da Karne (o Harth) che significa ‘luogo sacro’ (cioè la comunità pagana, gli dèi e i loro seguaci) e dalla parola val (o wal) che significa ‘morto’, ‘ucciso’”. In sintesi, dunque, il carnevale sarebbe la festa ‒ o meglio: il rito collettivo ‒ in cui un’intera comunità celebra la sostituzione delle antiche divinità e, al contempo, l’avvento di nuove forme cultuali. Forse il Gay Pride, vero e proprio baccanale del desiderio contemporaneo, è il necessario rito di passaggio che ci prepara per un nuova stagione ‒ e per l’instaurarsi di nuovi codici sociali. Come accade con il carnevale, è nell’eccentrico ‒ che libera e deforma ‒ che la società reclama nuovi dèi.

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