Per ogni cittadino europeo si producono circa 840 chilogrammi di cibo all’anno. Di questi, 560 vengono mangiati, gli altri 280 vanno sprecati (di cui 95 chilogrammi direttamente come consumatori). Sono 260 grammi al giorno a testa.

Con tutto il cibo che sprechiamo sul Pianeta potremmo sfamare oltre 2 miliardi e 300 milioni di persone ai ritmi di consumo europei. Senza considerare che non finisce in questo conteggio il cibo mangiato in eccesso da almeno 1 miliardo e 600 milioni di persone obese o sovrappeso: anch’esso, però, è di fatto cibo che sprechiamo.

Quando sprechiamo cibo, stiamo però sprecando anche (e soprattutto) molto altro:

– il denaro che abbiamo speso per acquistare quel cibo

– il tempo di chi ha lavorato per produrlo e il tempo nostro dedicato a lavorare per guadagnare i soldi necessari a comprarlo

– la terra coltivata per produrre quelle derrate alimentari

– l’acqua impiegata nella coltivazione e nei sistemi di produzione (non dimentichiamo che il 70% dell’acqua dolce disponibile sul pianeta è utilizzato in agricoltura)

– l’energia necessaria per produrre, trasformare, conservare, distribuire quel cibo

e la lista potrebbe continuare ancora.

Consideriamo poi che i nostri ragionamenti andrebbero estesi anche al packaging, che è tanto maggiore quanto più sono lunghe, destagionalizzate, delocalizzate, automatizzate, uniformate le filiere. Più il cibo è conforme al sistema alimentare globale, più necessita di packaging: altra energia, acqua, denaro, tempo sprecati (o perlomeno male utilizzati) in quantità enormi.

Tutto ciò, oltretutto, impatta in maniera rilevante sull’ambiente.

Pensare a un diverso sistema alimentare, che si impone di ridurre gli sprechi a tutti i livelli della filiera, che li considera un errore e non un pezzo strategico del sistema stesso, significa sostanzialmente ragionare nell’ottica della decrescita felice.

Non si tratta di pauperismo, al contrario: partendo da casa nostra, sprecare meno significa – a parità di budget – poter spendere meglio i nostri soldi e quindi mangiare meglio.

Occorre però che andiamo oltre il nostro frigorifero, in questa riflessione, e non ci fissiamo solo su ciò che buttiamo via a casa (che, abbiamo già detto, è una parte minore di tutto lo spreco): i nostri acquisti, in generale, finanziano un sistema di produzione piuttosto che un altro. Se comperiamo cibi “altamente vocati allo spreco”, siamo complici, anche se non buttiamo mai nulla nel bidone della spazzatura. Mangiare prodotti destagionalizzati, cibi precotti, alimenti che arrivano da molto lontano quando potremmo trovarne di analoghi provenienti da luoghi molto più prossimi, vuol dire sostenere il sistema degli sprechi. Così come consumare molta carne, mangiare sempre i soliti pesci, comprare senza informarsi.

Esiste invece un modo relativamente semplice ma estremamente piacevole di diventare sostenitori (più o meno consapevoli) della decrescita felice in cucina. Che di fatto è l’essenza del praticare lo Slow Food. Infatti è, prima di tutto, una questione di tempo (slow contro fast), che dobbiamo liberare dalle moderne forme di schiavitù che ci impediscono sempre di avere il tempo utile a fare le cose che ci fanno stare bene. Come andare al mercato, cucinare per noi stessi e le persone che amiamo, gustare in compagnia il nostro pasto.

Non dobbiamo arrenderci, se da soli non riusciamo a trovare la via d’uscita, cerchiamola assieme ad altri. Almeno proviamoci. Mangiare male mette di cattivo umore, fa male alla salute, produce danni all’ambiente e genera ingiustizie. E alla fine fa anche male al nostro portafogli, cosicché tutto quel lavoro per cui ci siamo dannati diventa denaro che spendiamo male perché non abbiamo il tempo di spenderlo meglio.

Lo Slow Food Day 2013, sabato 25 maggio, in 300 luoghi d’Italia cercherà di mettere assieme quante più persone possibili, di diversi mestieri e diverse esperienze di vita. Proveremo a condividere le buone idee e a fare tesoro di piccole o grandi storie.

Da qualche parte bisogna pur cominciare…

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