La Presidente della Camera Laura Boldrini ha scelto di celebrare la “festa” del Lavoro a Portella della Ginestra. E’ forse l’unico evento politico positivo delle ultime settimane. Ritornare sul luogo del delitto. Un delitto che costò la vita non solo alle 11 vittime di quell’eccidio, ma che strozzò nella culla anche la nascente democrazia italiana. Un infanticidio non a caso commesso in quella Sicilia in cui ebbe inizio la strategia politico-militare volta ad escludere la sinistra dal governo. Esclusione che a 66 anni di distanza, dopo l’illusoria parentesi della Seconda Repubblica, torna ad essere il tratto distintivo – pardòn: “divisivo” – della politica italiana.

Già durante la liberazione dell’Italia dall’esercito nazista, questa strategia fu condivisa da soggetti ben precisi: la massoneria italiana e statunitense (il principe Giovanni Alliata di Montereale), la criminalità organizzata (fu Luciano Liggio ad uccidere il sindacalista Placido Rizzotto, su mandato del boss Michele Navarra), il Vaticano (il padre domenicano Felix Morlion e l’allora capo dei servizi segreti vaticani Giovanni Battista Montini, che nel ’63 prenderà il nome di Paolo VI…) e, a partire dal ’48, il sistema di potere andreottiano.

Questi soggetti – e i loro eredi – si sono costantemente avvalsi della preziosa manovalanza di fascisti, vecchi e nuovi, proteggendoli e finanziandoli: dal principe nero Junio Valerio Borghese all’ordinovista Franco Freda (attuale editorialista di Libero!); fino ai Nar del camerata Giusva Fioravanti e del suo compagno di scuola Massimo Carminati, oggi entrambi a piede libero nonostante i morti che si portano sulla coscienza.

La strage del 1° maggio 1947 fu il vero inizio di quella strategia della tensione che, ben prima di Piazza Fontana, ha sempre avuto come principale obiettivo il soffocamento delle speranze di “cambiamento” di quei cittadini che per secoli avevano subito l’arroganza del potere e che, dopo vent’anni di fascismo, rivendicavano il proprio diritto di partecipare alla costruzione della democrazia e, con essa, del proprio futuro. Un futuro negato fin da subito da ministri come, per esempio, il democristiano Mario Scelba che tre anni dopo la strage di Portella della Ginestra ordinò alle forze dell’ordine di sparare sugli operai delle Fonderie Riunite di Modena, uccidendo Angelo Appiani, Renzo Bersani, Arturo Chiappelli, Ennio Garagnani, Arturo Malagoli e Roberto Rovatti. Nomi ormai dimenticati da quasi tutti. Umberto Terracini, già presidente dell’Assemblea Costituente e dirigente del Pci, li definì “omicidi premeditati, eseguiti a sangue freddo”. Già allora il potere volle far intendere al popolo italiano che non poteva esistere un’ “alternativa”. Fino al 1989 l’alibi di questa strategia fu il muro di Berlino. Poi si rese necessario trovarne di nuovi: il terrorismo islamico e la crisi finanziaria globale.

La verità è rivoluzionaria, diceva Gramsci. Forse oggi la diffusione della verità ci porterà a scoprire che la vera rivoluzione può corrispondere, paradossalmente, anche ad un’esigenza di conservazione: erigere barricate per difendere la Costituzione dai nemici interni ed esterni. Gli appelli dei pochi che, negli ultimi 35 anni, avevano compreso la gravità degli effetti della corruzione e delle mafie sulla vita pubblica (Berlinguer nel 1981, Dossetti nel 1994) sono stati colpevolemente sottovalutati. Purtroppo lo sono tuttora, nonostante l’impegno quotidiano di Libera e di tanti cittadini consapevoli e coraggiosi come il sindaco Angelo Vassallo, che ci ha rimesso la pelle; o come i magistrati di Palermo, ancora vivi sebbene minacciati, ma vergognosamente sottoposti al tiro incrociato del Csm, dei governi, con il complice silenzio del 90% dei media.

Bene ha fatto Stefano Rodotà a bacchettare Beppe Grillo quando definì “golpe” la rielezioni di Giorgio Napolitano: la legalità non è stata violata quel giorno. Ma ora il rischio è che venga violentata la legge suprema della Repubblica. A nessuna convenzione, infatti, potrà essere consentito di scassinare la Costituzione. L’obiettivo è chiaro: formalizzare – e dunque legittimare – quel presidenzialismo che di fatto si è già insinuato nella pratica politica di questi anni. Eppure, come ammonì Dossetti vent’anni fa, solo un’Assemblea costituente, eletta con sistema proporzionale, sarebbe autorizzata a compiere una “radicale revisione costituzionale”. L’attuale maggioranza parlamentare non ha ricevuto alcun mandato in questo senso. Se si azzardasse a farlo, allora sì che potremmo parlare di un vero e proprio colpo di stato.

C’è da sperare che tutti i cittadini che in questi anni si sono mobilitati in difesa delle costanti aggressioni alla Costituzione, da parte di Berlusconi e degli altri amici di Licio Gelli, non si rassegnino. Il loro impegno pubblico in difesa dell’ultimo baluardo della democrazia (non solo italiana) può essere più incisivo del loro voto. Le forze di opposizione – dentro e fuori il Parlamento – dovrebbero porre questa battaglia di civiltà in cima alla loro agenda. Altrimenti le picconate dell’annunciata “Convenzione” bipartisan, benedetta da Napolitano, faranno molti più danni di quelle del gladiatore Cossiga.

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