È appena passata mezzanotte, sera di giugno di tre anni fa, quando Nicola Virzì si mette davanti al computer e butta giù le 40 righe che lo separano dal Movimento. Un durissimo grido di accusa contro le persone con cui ha condiviso anni di battaglie. Poi, niente più riunioni, addio meetup. Fino all’altro ieri quando Nicola, ovvero Nik il nero, fa il suo rientro dal portone di ingresso principale: responsabile video per il gruppo 5 Stelle del Senato.

In mezzo, ci sono un migliaio di giorni e un’espulsione, quella di Giovanni Favia. Per capire cosa leghi queste faccende apparentemente lontanissime bisogna tornare a quella sera del 18 giugno del 2010. Nicola Virzì, fino a quel momento, è una delle colonne dei grillini bolognesi. Ha fondato il Movimento nel 2007, con sua moglie ha sfamato decine di ragazzi cresciuti a pane e Beppe Grillo. Riunioni continue, niente sabati né domeniche. Nik – titolare di una ditta che si occupa di segnaletica stradale – vive per il Movimento, sua moglie, Serena Saetti, pure. Tanto che oggi è consigliera di quartiere a Bologna. Poi arriva la crisi. E nel 2010 bussa anche a casa Virzì. I conti non tornano, la ditta chiude. Nel frattempo però gli affari del Movimento cominciano ad andare bene. A marzo si è votato, i 5 Stelle hanno preso il 7 per cento. E Giovanni Favia, cresciuto a pane, Grillo e Nik, è diventato consigliere regionale.

Brindisi e feste, poi si comincia a lavorare. Servono collaboratori e Favia ha un amico disoccupato che gli chiede aiuto. I video, Nik, li ha imparati a fare nelle giornate passate con gli attivisti: interviste a politici, a giornalisti: “Con una telecamerina – diceva – si può abbattere il muro delle ingiustizie”. Ma in Regione servono professionisti. E poi il Movimento che fa del merito una bandiera, che chiede il curriculum anche a Zagrebelsky, non può scegliere un collaboratore solo perché è un amico di vecchia data.

Favia, comunque, un contratto di prova a Nik lo fa. Lo avverte però che si tratta di una situazione temporanea, che nel frattempo farà colloqui con altre persone. E alla prima scadenza, un paio di mesi dopo, non gli rinnova più il contratto. È lì che Nicola Virzì si mette davanti al computer e butta giù tutto il suo rancore, scusandosi per il suo “pessimo italiano”: “Ultimamente avrete notato il mio pessimo umore alle riunioni, ma cazzo io non mi ci ritrovo più (…) in Regione mi sento un estraneo, non me l’immaginavo così, pensavo di rivedere le nostre facce in quegli uffici a lavorare come un tempo, con gli scazzi e le risate che si sarebbero sentite fino all’atrio di quel triste palazzo della Regione, avremmo rinfrescato l’ambiente (…) li è tutto blu petrolio e grigio con persone tristi e incravattate e noi ci stiamo adattando (…) Per fare politica a quanto pare ci vogliono dei tecnici e non il cuore delle persone, bisogna sottostare a delle regole che io non accetto, io sono libero e voglio esprimermi come so fare, semplicemente , in modo diretto senza paura, non voglio essere un professionista voglio rimanere Nik, con i miei difetti con il mio entusiasmo. (…) in Regione hanno deciso giustamente di fare una sorta di bando per un video operatore e altre figure che collaborino con loro chiedendo il curriculum, io non potrei farlo per tre motivi: non ho studiato per fare il video operatore, non voglio soldi dal movimento, non potrei mai e poi mai snaturare il mio modo di riprendere e montare i video per seguire un target che a me non piace”.

È da lì che il “caso Favia” comincia a montare. La campagna di Nik contro il consigliere regionale è feroce. Su Facebook, su Twitter e poi dalla cabina del suo camion – che nel frattempo è diventato il suo nuovo lavoro – manda “editoriali” di fuoco: “I panni sporchi – dice – li lavano in casa solo i vecchi partiti”. A novembre del 2012, durante una riunione del Movimento bolognese, è lui che aizza gli attivisti a gridare “Vergogna” contro i giornalisti.

Un consigliere di quartiere, Pasquale Rinaldi, cerca di calmare la situazione. Lui gli fa capire che è meglio che stia zitto: “Ad un certo punto – raccontò all’epoca Rinaldi – sento una fitta lancinante al bicipite sinistro e voltando la testa mi accorgo che Nik il nero mi ha afferrato per il braccio, stringendo con una forza inaudita. A quel punto mi trascina per tutta la sala, mi avrà trascinato per una decina di metri credo, e nel frattempo continuava ad insultarmi dicendomi che mi dovevo fare i cazzi miei e che non dovevo rompergli i coglioni, ecc. Siamo ostaggio dei violenti – proseguiva Rinaldi – e non abbiamo strumenti per distinguerci da costoro. Stiamo diventando fascisti ed ho paura”. Martedì Nik è arrivato al Senato. Lo ha voluto Casaleggio in persona.

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