Finiamo l’anno ospitando un pezzo di Matteo Miavaldi, corrispondente in India di China Files. Sperando che questi tristi episodi facciano riflettere tanto da evitare che si ripetano. In India, come in qualsiasi altra parte del mondo.

A 15 giorni esatti dal brutale “Stupro di gruppo di Delhi” le proteste di piazza non accennano a diminuire. La morte della studentessa di 23 anni, soprannominata dalla stampa con una serie di nomi fittizi tra cui “Figlia dell’India” e “Cuor di leone”, ha acuito i sentimenti di rabbia e frustrazione che dal 23 dicembre hanno portato decine di migliaia di persone a manifestare nei luoghi simbolo della capitale Nuova Delhi: India Gate – il monumento ai caduti – Rashtrapati Bhavan – la residenza presidenziale – e infine il parco astronomico Jantar Mantar.

Senza esagerare nel sensazionalismo, è giusto parlare di un evento storico destinato a cambiare la percezione dei crimini contro le donne, tristemente uno dei tratti distintivi di una società indiana estremamente maschilista e misogina. Lo stupro non è che l’apice di una serie di comportamenti molesti che giornalmente le donne indiane sono costrette a subire in pubblico, al mercato, sull’autobus, in treno, sul posto di lavoro, a scuola.

Molestie subite per anni in un relativo silenzio, senza che la condizione della donna in India riuscisse mai a diventare uno dei temi centrali del dibattito pubblico o una delle priorità della politica. Non che i gruppi femministi e le intellettuali non provassero ad alzare la voce: l’India ha sempre deciso di voltarsi dall’altra parte, di pensare ad altro.

L’omertà che ha ovattato il dramma della condizione delle donne è un concorso di colpa che ha unito i grandi media, la politica e la polizia, in un grottesco gioco di commiserazione e giustificazioni conservatrici come “se le ragazze escono di notte se le vanno a cercare” o “è colpa di questi vestiti occidentali”. Puntare il dito contro l’esterno rifiutandosi di affrontare la cruda realtà dei fatti: nella sola Nuova Delhi si sfiorano i due stupri al giorno, contando solamente quelli denunciati; oltre il 90 per cento degli stupri avviene entro le mura domestiche e coinvolge famigliari stretti delle vittime.

D’ora in avanti non sarà più possibile fare finta di nulla. La straordinaria mobilitazione degli studenti universitari di Delhi del 23 dicembre ha sbattuto in faccia all’India e al mondo il problema delle donne nel Paese, innescando una serie di reazioni nella società civile.

Alla manifestazione studentesca brutalmente repressa dalla polizia si è sostituito un movimento eterogeneo ed emotivo che raccoglie le posizioni più disparate: c’è chi invoca l’impiccagione o la castrazione chimica per i cinque aggressori, chi vuole leggi ferree contro l’eve teasing – la pudica espressione usata per racchiudere tutti i crimini di molestie e stalking contro le donne – chi lamenta l’inadeguatezza delle forze dell’ordine e delle misure di sicurezza nelle metropoli e chi, infine, vuole ridiscutere completamente la “tradizione” misogina del Paese.

Questi ultimi, purtroppo, sono diventati una minoranza silenziosa, schiacciati dal vociare dei partiti dell’opposizione – il conservatore Bjp in testa – e del nuovo Aam Aadmi Party di Arvind Kejriwal, che stanno platealmente strumentalizzando la morte della studentessa per attaccare il governo in carica dell’Indian National Congress.

Il dibattito si sta spostando sulla sicurezza e sulla presunta incompetenza dei politici del Congress, che governano sia a livello nazionale che a Nuova Delhi, tralasciando una gigantesca questione culturale che, ad esempio, ha creato i ladies compartment nei treni nazionali: più facile ghettizzare le donne in scompartimenti appositi piuttosto che lavorare sull’educazione della popolazione maschile.

O che ha colpevolizzato le ragazze vestite all’occidentale, in giro dopo il tramonto, ha tollerato i matrimoni combinati e il pagamento della dote, ha costretto brillanti studentesse universitarie ad un regime matrimoniale da segregazione, diploma nel cassetto assieme ai sogni di emancipazione ed impiego.

E’ difficile prevedere dove porterà questo inaspettato risveglio della società civile indiana. La presa di coscienza dei giovani, stavolta in prima fila a difendere i propri diritti, è senz’altro un ottima notizia. Ma vista da qui, l’ipotesi che il movimento spontaneo venga completamente dirottato dai soliti interessi politici – le elezioni nazionali si terranno nel 2014 – non è per niente remota.

Sta succedendo in queste ore, mentre il Bjp – partito a trazione induista estremista notoriamente schierato su posizioni ultraconservatrici – organizza un’adunata per commemorare la morte della “Figlia dell’India” ed un esponente locale dello stesso partito propone di bandire la gonna dalle divise scolastiche del Paese “per la sicurezza delle nostre ragazze”. Un’opinione che va ad aggiungersi al divieto di uso del cellulare in vigore in alcuni villaggi dell’Haryana, alla chiusura dei locali notturni di Calcutta alle 11 di sera e alla censura di una pellicola cinematografica contenente una scena di stupro “per la sicurezza delle nostre ragazze”, al coprifuoco femminile annunciato mesi fa dalla polizia di Gurgaon, città satellite dell’élite di Delhi, in seguito all’ennesimo stupro di gruppo.

La speranza è che la scossa provocata dalla gioventù indiana possa dar vita ad una più profonda riflessione sulle radici della violenza contro le donne in India, da cercarsi prima di tutto all’interno dei nuclei famigliari e non in “stravaganti mode occidentali”. Se la politica sarà in grado di intraprendere questa missione culturale rimane un’incognita. Non l’ha fatto fino ad oggi e, tra le solite facce sedute in parlamento, su 790 deputati 27 sono accusati di stupro e 266 di molestie sessuali. Un triste spaccato della democrazia più grande del mondo.

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