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L’ultimo bacio di camorra per non morire in ambulanza

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“Bravi!! Simpatici!! A nu’ buon guaglion avit’ pigliat’”, “Amore mio”, “Si o’ core mio”. Sono le voci che si levano quando escono in manette dalla caserma Pastrengo, scortati dai carabinieri. Sono due killer. Ridono e fanno gesti da pagliacci. Fanno pena. I parenti, i compari li aspettano. Li salutano. La gazzella dei militari dell’Arma è pronta, li condurrà al carcere di Poggioreale. Irrompe una donna: corpulenta, manesca, dura e determinata. Lo afferra e lo bacia sulle labbra. Con forza. Quasi a voler ribadire: sei mio, mi appartieni, non ti abbandono. Un gesto d’intimità e di passione: ancestrale, rude, animalesco. Dietro di lei spunta un giovane gorilla. E’ basso, tarchiato con i capelli rasati. Gli afferra la testa, la schiaccia fino al punto che le labbra si congiungono bagnandosi di saliva. Lui resta imperturbabile. Le divise lo trascinano, prende posto. La sua “femmina” ritorna e riesce a dargli l’ultimo bacio sfiorandogli con una carezza la bocca.

Ci sono i riflettori della stampa. Quei baci di camorra sono un rituale: è rinnovare il patto di fedeltà e di omertà. E’ l’ossequio al boss. E’ il rispetto. E’ il messaggio di una camorra intima e segreta: siamo compatti, siamo un clan. Siano noi e solo noi. Il monito è chiaro: muore chi pensa al colpo di mano. Un rituale non improvvisato. Un linguaggio criptico. Una simbologia precisa e efficace. Le immagini che immortalano quei baci rubati pubblicate da tutti i giornali, finiscono nei Tg, diventano un caso. E’ una comunicazione che si rafforza, prende vigore, diventa virale. Chi doveva capire ha capito. Non c’è uno spazio intermedio. Si è diretti. Questa sub-cultura è l’architrave. E’ sangue che irrora i vasi e le arterie delle camorre. Napoli e la sua provincia ne è infestata. I quartieri, i rioni, le strade, i vicoli sono ammalati di cultura camorristica. Organizzi le marce, partecipi, lotti per le regole, mangi legalità ogni giorno ma non puoi fare a meno di respirarla, viverla, subirla. E’ una puzza nauseabonda. Un fetore. E’ il marcio che s’infraceta. Li hanno festeggiati, ossequiati, celebrati. Era il giugno di otto fa. Lo decisero: Doveva morire.

La sentenza della camorra non ammette rinvii. Così fu. Nel mirino finì Salvatore Manzo, boss del clan Stabile di Chiaiano, già scampato a un altro agguato. Il gruppo di fuoco del clan Lo Russo fu messo sulle sue tracce grazie ad una telefonata di una vedetta. L’informazione fece scattare il raid. Manzo sarebbe stato trasferito dall’ospedale Cardarelli a una clinica privata di San Giorgio a Cremano. I killer entrarono in azione all’imbocco della tangenziale allo svincolo di Capodimonte. Erano in moto. Seguirono l’ambulanza. Giunti in viale Colli Aminei aprirono il fuoco : il primo a cadere fu Giuseppe D’ Amico, il guardaspalle del boss che scortava l’ambulanza su di una Fiat Punto. Un’azione militare. Sbarrata la corsa all’ambulanza, i sicari aprirono il portellone e crivellarono di proiettili Manzo, morì sul colpo. Vendetta di camorra, esemplare per un boss che aveva osato rinnegare il clan. Ora quei baci premiano i vendicatori, gli “eroi” che uccisero un “girato”, un “infame”, un “traditore”. Quei baci di camorra ammoniscono che chiunque provi a tradire il clan finisce cadavere in ambulanza. 


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