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Cave e acque minerali: buoni affari per i privati, non per l’ambiente

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Pare proprio che il welfare inteso letteralmente come “Stato del benessere” ce lo dobbiamo scordare, perché bisogna tappare i buchi che lo stesso Stato nei decenni passati ha creato. E quindi, più tasse e meno servizi sociali. Questa la ricetta che ormai da tempo ci viene propinata. E che di recente lo stesso ministro non tecnico Ornaghi ha avuto il coraggio di ammettere.

Peccato che, volendo, ci sarebbero anche altri modi per evitare che gli errori commessi nel passato si riversino sempre sui soliti noti. E non parlo qui solo di rinuncia a grandi opere, o a folli spese militari, o della Chiesa che non paga l’Ici, o delle sovvenzioni alle scuole private (!). Parlo di risanamento del territorio, e parlo anche di maggiori introiti, che, volendo, l’ente pubblico potrebbe facilmente acquisire. Con indubbi vantaggi per l’ambiente.

Due campi per tutti: le concessioni per l’estrazione di inerti e le concessioni per lo sfruttamento delle sorgenti.

Vediamo il primo campo. L’Italia è, ahimè, il paese dei costruttori, e quindi anche delle cave. Nel 2010 ne erano attive la bellezza (si fa per dire) di 5736 (!), per lo meno queste erano quelle autorizzate. Due i principali motivi. Il primo, che in Italia il riciclo di materiale proveniente dall’edilizia è pressoché inesistente (in Olanda raggiunge il 90%). Il secondo è che l’estrazione di inerti ha costi irrisori. Alle Regioni arrivano 36 milioni di euro, mentre il business delle imprese dei cavatori ammonta ad un miliardo e 115 milioni di euro.

Un quadro che la dice lunga oltre che sulla capacità di far quadrare i conti pubblici  dei nostri amministratori, oltre che sulla loro sensibilità ambientale. E dire che le estrazioni, se da un lato potrebbero garantire un gettito ben più alto, dall’altro  costituiscono un danno enorme per l’ambiente, specie quelle lungo i corsi d’acqua. Ma non sottovalutiamo quelle per ripascere le spiagge che vengono costantemente erose dal mare. Il risultato di questo mix determinato dal menefreghismo sostanziale della mano pubblica è il deturpamento del territorio, l’alterazione degli ecosistemi, ed il vantaggio economico irrisorio degli enti. E questo senza contare un ulteriore elemento. I buchi prodotti dalle cave di pianura quasi sempre diventano discariche abusive o non, oppure tristissimi laghetti di pesca cosiddetta “sportiva”.

E veniamo allo sfruttamento delle sorgenti, ovverosia al business delle acque minerali.

In teoria le Regioni dovrebbero pretendere un canone basato sia sugli ettari concessi per lo sfruttamento, sia sui metri cubi di acqua estratta oppure imbottigliata. Non si sa perché, invece, solo poche Regioni applicano questi criteri, mentre altre limitano l’introito ad una sola tipologia. Clamoroso il caso della Liguria, che pretende solo 5 (leggasi “cinque”) euro per ettaro all’anno!

E dire che, anche qui, aumentando i canoni si potrebbe sia migliorare la salute delle casse pubbliche, sia, forse, anche riuscire un po’ a contenere i danni ambientali, che non sono da poco. Vale la pena infatti di ricordare come, secondo Legambiente, l’imbottigliamento di 12,5 miliardi di litri nel 2008 abbia comportato l’uso di circa 365mila tonnellate di PET, un consumo di 693mila tonnellate di petrolio e l’emissione di 950mila tonnellate di CO2 equivalente in atmosfera. Questo perché il vetro a rendere ovviamente non fa business e da molti, troppi l’acqua del rubinetto non è considerata potabile. L’Italia è il terzo consumatore al mondo di acqua minerale, con 196 litri pro-capite all’anno, dietro Arabia Saudita e Messico. Ma che senso ha?

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