Quando un anno fa ho deciso di aprire il mio blog personale e ho iniziato a occuparmi soprattutto di tematiche legate alla maternità e al lavoro (precario), non avrei mai pensato che a scrivermi sarebbero state soprattutto le donne senza figli. E’ stata una scoperta rivelatrice di un’emozione diffusa, soffocata e per molti aspetti dolorosa: quella di non diventare madri. Io la chiamo la non-scelta perché, dalle parole delle mie lettrici, tutte si evince, tranne di aver potuto scegliere.   

La non-scelta è il fardello che le donne della mia generazione, poco più che trentenni, si portano addosso con tutta la rabbia del caso e racconta di colloqui lavorativi basati sulla maturità del proprio apparato riproduttivo, di contratti tarati sul tempo del nostro orologio biologico, di rinvii decisi dopo altri rinvii, perché adesso non è il caso, perché ora non è proprio il momento giusto. E il momento giusto, poi, non arriva mai.

Le donne che mi scrivono conoscono fin troppo da vicino la realtà descritta dall’ultimo dossier “Mamme nella Crisi” di Save the Children secondo cui “in Italia quasi 2 donne su 3 sono senza lavoro se ci sono 2 figli mentre resta inattivo il 36,4% delle donne dai 25 ai 34 anni”. “Solo nel periodo tra il 2008 e il 2009 – si legge nel dossier – ben 800.000 mamme hanno dichiarato di essere state licenziate o di aver subito pressioni a seguito di una gravidanza, anche a casua del meccanismo delle “dimissioni in bianco”.

Sempre secondo Save the Children “Se nel 2003 le interruzioni forzate dal lavoro alla nascita di un figlio erano il 2%, nel 2009 sono quadruplicate diventando l’8,7% mentre l’occupazione femminile, che nel 2010 si attesta al 50,6% per le donne senza figli – ben al di sotto della media europea pari al 62,1% – scende al 45,5% già al primo figlio (sotto i 15 anni) per perdere quasi 10 punti (35,9%) se i figli sono 2 e toccare quota 31,3% nel caso di 3 o più figli”.

Il quadro generale non è dei migliori. Pensavo questo quando sono stata invitata a prendere parte, domenica 18 novembre, a un dibattito organizzato nell’ambito di una rappresentazione teatrale dal titolo quanto mai attuale: Dolce attesa… per chi? Si tratta di uno spettacolo che come blogger ho deciso di sostenere perché affronta uno dei temi più controversi: in Italia, oggi, è ancora possibile fare figli? L’argomento ha sempre suscitato un vivace dibattito tra chi sostiene che la paura nasca in realtà da un’insicurezza emotiva, più che economica e chi vede nella precarietà e nella mancanza di opportunità l’ostacolo principale. D’altra parte, sempre il dossier Mamme nella crisi, sottolinea che “la difficile condizione delle madri nel nostro Paese è uno dei fattori chiave che determinano una maggiore incidenza di povertà sui bambini e sugli adolescenti, con il 22,6% dei minori a rischio povertà”, un rischio che molte donne non se la sentono proprio di assumere. Anche perché “l’Italia è tra le nazioni europee che meno investono sui servizi per le famiglie e i bambini. Nel 2009, la spesa per la protezione sociale per famiglie e minori raggiungeva appena l’1,4% del Pil, rispetto ad una media europea del 2,3%, con la conseguenza di una forte carenza di servizi per la prima infanzia. Nel nostro Paese, infatti, solo il 13,5% dei bambini fino a 3 anni viene preso in carico dai servizi, una percentuale lontanissima dall’obiettivo europeo del 33%”.

Va da sé che “nonostante il contributo demografico delle donne di origine straniera, la nascite annue tra il 2008 e il 2010 sono calate di 15.000 unità”.

Proprio per questo viene da domandarsi, oggi, Dolce attesa… per chi? Se ricostruiamo l’immagine della donna alla luce di questi dati, se la vediamo istruita e magari non più tanto giovane, al suo ennesimo lavoro o al suo ennesimo colloquio di lavoro, col contratto in scadenza proprio come il suo orologio biologico, ci rendiamo conto di quanta frustrazione accompagni la non-scelta delle donne. Perché la paura di diventare genitori è di tutti. Ma la scelta, se diventarlo o meno, dovrebbe essere solo nostra.

Articolo Precedente

Diamo il Nobel per la pace a Malala, simbolo di coraggio

next
Articolo Successivo

Savita che non poteva abortire in un paese cattolico

next