“Una donna senza lavoro è una donna senza libertà”. C’era scritto così su uno dei cartelli di protesta con cui domenica alcune sindacaliste hanno attaccato la ministra del Lavoro, Elsa Fornero. Una verità tanto palese quanto banale, visto che chiunque percepisca uno stipendio “dignitoso” dovrebbe essere in grado di mantenersi e vivere come crede la propria indipendenza, da solo o all’interno di una famiglia. Senza contare, poi, che è ovvio che se a lavorare non è soltanto il marito ci sono più soldi per tutti.

Insomma, “two job is mej che one”, tanto per parafrasare un vecchio spot dove l’attore Stefano Accorsi parlava di un gelato in un inglese maccheronico. Eppure, per le donne italiane la situazione resta critica: il tasso di disoccupazione in rosa continua a essere altissimo, al 9,6 per cento nel 2011 contro quello maschile del 7,6 per cento. E la situazione appare grave soprattutto al Sud, dove, secondo un recente dossier di Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, lavora a malapena una giovane su quattro.

La sensazione è che, a livello di mentalità, per molti aspetti si sia rimasti al 1977. Quando cioè Lucio Battisti pubblicava l’album “Io, tu, noi tutti”, nel cui lato B c’era “Neanche un minuto di non amore”

Una canzone che mi è piaciuta fino a che non mi sono soffermata sul suo significato. In sintesi, narra la storia di un Battisti (l’io narrante, o meglio, cantante) che, dopo avere trovato insolitamente cupa la voce al telefono della propria compagna, si precipita da lei, terrorizzato all’idea che la storia stia per finire. Ebbene, quando il nostro eroe raggiunge la sua amata scopre la “sciocca” verità: lei è triste per il “solo” fatto che non ha più un lavoro. “Così hai perso il posto – canta Battisti – hai pianto e che altro c’è? Nient’altro questo è tutto…”. Insomma, che sarà mai? Ma siamo pazzi, c’è da allarmarsi per così poco?!? E come se non bastasse la canzone si conclude con un bel “Scusami se rido, non pensavo a te”, ma – se ne può dedurre – alla cavolata per cui mi hai fatto catapultare qui, temendo – quella sì sarebbe stata la tragedia – che ci saremmo lasciati.

Volendo poi, in questa specie di viaggio canoro nel tempo che ha come filo rosso le donne e il lavoro, si potrebbe fare meno strada, per andare al 1992. Quell’anno, Roberto Vecchioni trionfava al Festivalbar con “Voglio una donna”, dove il cantautore milanese andava in cerca di una “donna con la gonna”, cedendo a chiunque volesse farsene carico “quella col cervello” e “quella che fa carriera”. “Una provocazione”, si era difeso fin da subito Vecchioni dagli attacchi delle femministe e in generale di chi gli faceva notare che forse da lui non ci si sarebbe aspettati quella canzone.

Provocazione o meno, troppo spesso si fa ancora l’errore di sottovalutare l’importanza del lavoro femminile. Di recente, in una trasmissione tv, la paladina delle donne Alba Parietti, con una sincerità disarmante quanto agghiacciante, sosteneva che, dovendo scegliere la colf, a parità di tutto, preferisce optare per chi non sia a rischio gravidanza. Allora cominciamo a rendere obbligatoria anche la paternità, oltre che la maternità. E vediamo se la forbice tra trattamento degli uomini al lavoro e delle donne non si riduce almeno un po’.

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