Da un po’ di tempo a questa parte, siamo sottoposti di continuo al bombardamento mediatico della parola “spread”, che poi è il differenziale tra rendimenti di titoli di Stato italiani e tedeschi. “È salito”, ci raccontano un giorno; “è sceso”, ci dicono un altro. Un po’ di tempo fa ho provato un esperimento: ho chiesto a mia nonna, pensionata di 76 anni, se avesse capito cosa fosse questo benedetto “spread”. Lì per lì, mi ha risposto che non ne sapeva nulla (“So assai”, un’espressione in bilico tra l’italiano e il dialetto ligure). Il giorno dopo (e non può certo essersi aiutata con Google) mi ha telefonato: “Credo che sia la differenza tra quanto rendono i titoli della Germania e i nostri”. A voler essere pignoli, il confronto è tra il Bund tedesco e il Btp italiano a dieci anni, ma in ogni caso mia nonna, a mente fredda, ha passato l’esame a pieni voti.

In realtà, nel mondo dell’economia e della finanza c’è almeno un altro “spread” che è da sempre su livelli di allarme: quello tra la presenza di uomini e donne ai posti di vertice delle aziende. Manco a dirlo, i primi vincono la “battaglia”. Ad agosto, per risolvere almeno in parte il problema, è diventata operativa la legge sulle quote rosa, che stabilisce percentuali fisse (inizialmente un quinto e poi un terzo) per la presenza di donne negli organi di amministrazione e controllo delle società quotate e pubbliche. Nel 2022 la legge esaurirà la propria efficacia, nella speranza che dieci anni siano sufficienti per ripristinare l’equilibrio di genere.

Il provvedimento sulle “quote rosa”, ragionevole poiché tenta di metter mano a un problema altrimenti senza soluzione, rischia però la solita applicazione “all’italiana”, con la sostituzione cioè degli uomini nei consigli di amministrazione con le loro mogli, figlie e compagnia bella che prima della nuova legge erano tra le rare voci femminili forti ai vertici delle società quotate. Non si vogliono mettere in discussione i meriti e le capacità di queste eventuali “mogli e figlie di”, ma, per sgomberare il campo da qualsiasi fraintendimento, forse sarebbe meglio evitare di inseguire con queste scappatoie il rispetto delle quote rosa. Un problema che resta, in ogni caso, è quello degli effettivi ruoli di comando nelle società – amministratore delegato, presidente, direttore generale – che rimangono prerogativa maschile, quote rosa o non quote rosa.

Un ulteriore tentativo di riequilibrare i rapporti di forza tra uomini e donne è stato fatto ancora il 10 ottobre, quando il Senato ha approvato la proposta di legge sulla parità di trattamento negli enti locali. Si tratterà di vedere se, anche questa volta, la legge troverà applicazioni “all’italiana”.

Volendo, c’è poi un altro spread ancora, ma questa volta non per forza “negativo”, vale a dire quello che differenzia donne e uomini nell’approccio all’investimento. Secondo diversi studi, il sesso femminile tende a essere più prudente. Semplificando, in un contesto economico-finanziario complesso e continuamente mutevole come quello attuale, le donne privilegiano i Bot rispetto alle azioni.

Ebbene, la rubrica “I soldi nella Borsa” si pone come obiettivo quello di collocarsi nel bel mezzo di questi “spread” femminili, lungo quel sentiero impervio e tortuoso che, per mille motivi, separa le donne dal mondo dell’economia e della finanza.

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Donne e lavoro? Siamo rimasti ai tempi di Battisti

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