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Ikea cancella le donne

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Sul giornale svedese “Metro” le due versioni del catalogo Ikea

Aprile 1908, Capri. Alexander Bogdanov gioca a scacchi con Lenin: i due sono ospiti di Maksim Gor’kij, una famosissima foto li ritrae. L’immagine è stata più volte ritoccata per cancellare alcuni astanti, che negli anni divennero nemici della rivoluzione: uno dei primi episodi di censura. E manco c’era photoshop. Oggi il ritocchino – estetico o politico – è alla portata di tutti. Così non è stato complicato per Ikea, multinazionale dei mobili low cost, cancellare dal proprio catalogo (208 milioni di copie, distribuite in 43 Paesi) le donne.

Sì, sì: nell’edizione stampata per Kuwait, Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti non c’è l’ombra di un essere umano di sesso femminile. Nemmeno una bimba. Il quotidiano free press di Stoccolma Metro pubblica le immagini del catalogo occidentale accanto a quelle dell’edizione saudita. Le foto sono le stesse, solo che (quando si dice piccolo particolare) in quelle “islamiche” le donne scompaiono. Il motivo è molto semplice: signore, signorine e bambine sono vestite all’occidentale e hanno i capelli scoperti. Non proprio quelle che noi definiremmo “foto senza veli”, ma neanche “con veli” e tanto basta a suggerire la drastica eliminazione.

Che sarà mai un mondo senza donne? Siccome la Svezia non è proprio un Paese reazionario in tema di diritti, il ministro del commercio (una donna, Ewa Björling) ha immediatamente reagito: “Non si possono depennare le donne dalla società, è un altro triste esempio di come sia ancora lunga la strada verso la parità tra uomini e donne in Arabia Saudita”.
Il portavoce dell’azienda (un’altra donna, Ylva Magnusson) ha risposto che sebbene l’esclusione delle donne dalla versione saudita del catalogo sia in conflitto con i valori del gruppo, è stato necessario “reagire preventivamente”.

Per evitare polemiche, dicono, o forse improvvise “autocombustioni” dei centri commerciali. Qualche tempo fa Ikea era stata costretta a censurare dal sito russo un’immagine che ricordava le “scandalose” Pussy Riot. La pubblicità, del resto, è l’anima del commercio. Non del progresso.

Il Fatto Quotidiano, 2 Ottobre 2012

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