Se avvicinandoti a Lucio Dalla annusavi il profumo dei limoni e del mare, Roberto Roversi ti faceva sentire quell’odore quasi scomparso di carta e inchiostro, il vagheggiare di parole che non esistono, ma ti pesano sulla coscienza come un macigno. Fu tutto, Roversi. Partigiano, antiquario, libraio, giornalista, scrittore, paroliere di canzoni, macchina teatrale, laureato in filosofia senza la pretesa di essere filosofo. Fu poeta soprattutto, e coscienza critica di un Paese che, attraverso i suoi occhi tristi come la più impervia delle salite, ha visto crescere e deteriorarsi, dal fascismo alla berlusconizzazione, con tutto quello che in mezzo c’è stato. E soprattutto il dolore, nel giugno del 2007, la perdita del figlio, Antonio, sociologo e professore ordinario all’Università di Bologna.

Avrebbe potuto avere soldi e fama, ma non volle mai niente. E, negli ultimi mesi di vita si è fatto promettere dalla moglie che, quando quel giorno sarebbe arrivato, non ci sarebbero stati funerali, né pubblici né privati, nessuna commemorazioni o ricordo: “E’ tutto lì, in quello che ho scritto”. Ieri è andato via per sempre, Roversi. Aveva 89 anni. 

Visse in un quasi maniacale, ma mai scorbutico, silenzio, nella sua Bologna, e quando sul tavolo aveva offerte dei più grandi editori, lui fece quello che nessuno avrebbe fatto: si mise a scrivere su carte da fotocopiare e distribuire a chi gli andava a genio, al massimo avrebbe concesso qualche firma su riviste autogestite.

Sui libri e le librerie, in un dialogo con Michele Smargiassi di Repubblica, all’affermazione dell’intervistatore che lo paragonava a Kien, il bibliomane di Autodafé di Canetti, che ascoltava i libri parlare fra loro di notte,  rispose:  “E cosa vuole che facciano i libri di notte? Immagini la biblioteca dell’Archiginnasio, in inverno, gelo e neve fuori, buio dentro, i libri disposti in ordine bizzarro, per altezza e dimensione, magari si trovano fianco a fianco due volumi incompatibili, si parlano, litigano, si sfidano a duello… Poi, la mattina, quando torna il bibliotecario, tutto è di nuovo in ordine”.

Anche nella sua più celebre collaborazione, con Lucio Dalla, di soldi non ne volle mai sapere. In alcuni album neppure la firma, come in Automobili. Eppure quell’amicizia intrisa di luna e aria, dette vita a quello che sicuramente è stato uno dei periodi più formidabili di quel piccolo genio che fu Lucio: Anidride solf0orosa, su titti, ma anche album minori. Quando Dalla decise di cambiare strada, di andare a rovistare non solo nei sogni, ma anche in quello che lui stesso definiva nazional popolare, Roversi rimase il suo più importante interlocutore e consigliere.

Di Lucio diceva: “Un uomo colto, ma in libreria non avevo un giradischi, così per parlare delle nostre cose musicate mi veniva spesso a prendere in macchina e giravamo sui colli ascoltandole con l’autoradio. Diceva che avrebbe musicato anche l’elenco del telefono, se lo avessi scritto io. Poi giustamente s’accorse che le cose che scriveva da solo vendevano cento volte di più delle nostre”.

Le edizioni Pendragon hanno ristampato tre dei suoi testi teatrali (Unterdenlinden, Il Crack e La macchina da guerra più formidabile) sotto la cura del professor Arnaldo Picchi, e hanno pubblicato l’ancora inedito La macchia d’inchiostro.

Nel 2006 la sua libreria, la Palmaverde, ha chiuso i battenti. Era in via de’ Poeti, centro di una Bologna che pulsava di cultura. Ma dopo oltre 50 anni di attività, Roversi e la moglie Elena, compagna inseparabile, avevano deciso di ritirarsi. Tutti i libri sono stati, all’asta, acquistati da Coop Adriatica. Parte di essi sono stati venduti. Quelli invece di maggiore interesse sono stati donati a biblioteche. “Credo che i libri, i dischi debbano continuare a girare”, disse. “A trovare nuovi destini. Mi sta benissimo che vengano messi in vendita. Se ne devono andare per la loro strada, con un passato e un futuro. L’ ho imparato fin dal mio primo grande incontro con il catalogo delle opere raccolte da Theodor Mommsen, lo storico. Capii che era come per le persone: ci vuole aria, ci vogliono incontri”.

Oggi il presidente della Repubblica ha scritto due righe per ricordarlo. Ma a Roversi, che di omaggi non ne voleva, né da vivo e né da morto, non sarebbe piaciuto. Come non sarebbero piaciuti gli articoli che oggi hanno riempito i siti internet e domani i giornali. Lo stesso ha fatto il sindaco di Bologna Virginio Merola: “E’  con  dolore  che  apprendiamo  della  scomparsa  di  Roberto  Roversi”, afferma un comunicato dell’amministrazione comunale. “Partigiano,  uomo  di  cultura,  persona che della scrittura ha saputo fare un’arte  interpretandola in ogni suo aspetto. Poeta, scrittore, libraio, ha composto testi per canzoni di successo e testi teatrali. E’  l’ennesimo lutto del modo della cultura bolognese, se ne va uno dei più grandi intellettuali che questa città abbia avuto. Una grande perdita”.

Già, perchè Roversi era stato anche partigiano sulle colline piemontesi nel ’43 e poi aveva sempre seguito e vissuto le vicende politiche del nostro paese, intrecciando impegno pubblico e professione privata, in quella tipico e fecondo humus d’organicità che il novecento ha portato con sè come fondamentale ventata di ribellione e cambiamento.

Per Bologna è l’annus horribilis della scomparsa e del cordoglio, del dolore e della nostalgia di un mondo che finisce con la morte di Lucio Dalla e Stefano Tassinari, e di uno nuovo ancora impossibile da disegnare, ma che dopo oggi sempre farsi sempre più incolore e insignificante.  

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