Se non c’è più destra e sinistra, non c’è più la politica. Resta, allora, il pensiero dominante – che oggi è quello dell’economia liberista e del capitalismo finanziario – al di fuori del quale non è possibile andare. Il governo della cosa pubblica si riduce ad amministrazione dell’esistente, al fare i compiti a casa che ci detta l’Europa. La politica viene espulsa, in quanto rissoso spazio inefficiente e dannoso. Ad essa subentra la tecnica dei presunti esperti o dei professori, che decidono solo come percorrere strade già tracciate. La democrazia stessa non serve più a nulla, additata ad elemento di disturbo dei “mercati”, che assurgono come unico metro valutativo dell’amministrazione tecnica.

La politica è lo spazio delle scelte, della possibilità di governare il cambiamento e – per chi è di sinistra (io sono comunista!) – di trasformare la società.

La politica, il governo della cosa pubblica, non è il perseguimento del “bene comune”. È un durissimo scontro di interessi – quasi sempre contrapposti – tra le diverse componenti della società. Mettere una patrimoniale o aumentare le tasse ai lavoratori dipendenti sono entrambe misure che fanno crescere le entrate dello Stato, ma colpiscono soggetti sociali diversi. Bisogna scegliere. In questi anni di crisi la scelta è sempre stata di far pagare i soggetti sociali più deboli (lavoratori, disoccupati, precari, pensionanti) e di salvare e aiutare le banche e i detentori di grandi redditi, rendite e capitali.

La sinistra è – dovrebbe essere – quella forza politica che sceglie di stare dalla parte dei lavoratori, ovvero dei soggetti sociali (delle classi) più deboli – più deboli poiché non dispongono del medesimo potere contrattuale del datore di lavoro, perché non posseggono grandi mezzi d’informazione, perché sono fuori dai palazzi che contano. La sinistra è – dovrebbe essere – la parte politica che sceglie di redistribuire la ricchezza, ridurre gli squilibri, perseguire la giustizia sociale, aumentare – non ridurre – i diritti. Per fare ciò deve – dovrebbe – battersi contro le ingiustizie della società, enormemente accresciute dopo decenni di neoliberismo.

Più in particolare i comunisti italiani: da Togliatti a Berlinguer – sono quelli che hanno sempre cercato di trasformare la nostra società, per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza dei cittadini (come recita la nostra Costituzione).

Le destre, per contro, sono il partito delle idee dominanti al servizio della classe dominante. Sono le forze che difendono le élite al potere e, al contempo, cercano di accrescere per esse gli spazi di potere politico, economico e sociale. Nella politica del ‘900, della contrapposizione bipolare, le destre – in Europa e in Italia – erano sulla difensiva, costrette a fare concessioni per scongiurare il “pericolo rosso”. Negli ultimi vent’anni – all’indomani della fine della prima Repubblica, non a caso coincidente con l’ascesa di Berlusconi – sono passate all’attacco e hanno sostanzialmente smantellato – una per una – tutte quelle “concessioni” che avevano fatto (dalla scala mobile alle pensioni, dai diritti per i lavoratori allo stato sociale, e così via, di controriforma in controriforma).

Nella foga della retorica nuovista si dice che destra e sinistra siano distinzioni che non hanno più senso. I populismi fingono di attaccare l’una e l’altra parte con l’argomento del “tanto sono tutti uguali”: sono i migliori alleati (inconsapevoli?) delle destre, di coloro che, appunto, difendono e fanno avanzare le idee dominanti. Perché criticando tutti eliminano la possibilità di scegliere da che parte stare. Il nuovo finisce, così, per essere funzionale al vecchio, a chi detiene le redini del potere nella società, alle idee fallite del neoliberismo e del capitalismo finanziario.

Ciò non significa che la sinistra in Italia non sia stata e non sia esente da errori. O che parte della sinistra non abbia assecondato in modo acritico il pensiero dominante. Ricostruire la sinistra in Italia è il nostro cimento e in essa tenere viva l’esperienza dei comunisti in Italia.

Si può uscire dalla crisi neoliberista da sinistra – stando dalla parte del lavoro e dei diritti – o da destra, con la definitiva vittoria dell’economia sulla politica, del privato sulla democrazia.  

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