Tanto fumo, ma poco arrosto: Wikileaks, nella sua storia breve, ma intensa, ha certamente contribuito, in qualche misura, a rendere più trasparenti le azioni dei governi, ma non ha radicalmente inciso sui loro comportamenti. Anche la ‘waterloo della diplomazia’ rappresentata dalla divulgazione, nel novembre del 2010, di centinaia di migliaia di documenti non s’è rivelata, a conti fatti, il terremoto preventivato: ambasciatori e funzionari continuano a redigere cablogrammi, magari con uno stile meno brillante e più diplomatico, cioè meno trasparente.

Il fatto è che le vicende di Wikileaks e la sua missione di giustizia, etica e democrazia si sono ben presto intrecciate e rapidamente identificate con quelle personali e contraddittorie del suo leader e fondatore Julian Assange, personaggio discusso, un biondino cui vanno larghi i panni che si taglia addosso dell’eroe e del perseguitato, ma pure quelli che gli confezionano del ‘nemico pubblico numero uno’.

Wikileaks, che nonostante il nome non ha alcun legame con Wikipedia, è un’organizzazione senza scopo di lucro, che riceve documenti segreti a vario titolo e li rende pubblici. L’organizzazione s’impegna a verificare l’autenticità del materiale prima di diffonderlo e a preservare l’anonimato degli informatori. Sulla carta, l’azione di trasparenza di Wikileaks dovrebbe svilupparsi a 360 gradi. In pratica, l’obiettivo delle loro fughe sono sempre stati gli Stati Uniti: Assange e i suoi informatori non hanno certo dimostrato pari diligenza, o pari efficienza, nello svelare le magagne di Russia e Cina, o di Iran e Arabia saudita. Ma, forse, i nemici della trasparenza proteggono i loro segreti meglio degli americani bonaccioni.

I primi colpi di Wikileaks con ampia eco su scala internazionale riguardano i conflitti in Iraq e Afghanistan: nel giro di sei mesi, l’organizzazione di Assange si fa notare tre volte. In aprile, durante una conferenza stampa a Washington, diffonde un video di 17 minuti che mostra l’assassinio di almeno dodici civili iracheni, tra cui due giornalisti della Reuters, in un attacco condotto da due elicotteri Usa Apache il 12 luglio 2007. L’autenticità del video, intitolato Collateral Murder, viene confermata. Il mese dopo, un graduato dell’esercito, Bradley Manning, viene arrestato per avere divulgato il video e altre centinaia di migliaia di documenti riservati.

In luglio, WikiLeaks pubblica una raccolta di 91.731 documenti militari sulla guerra in Afghanistan che vanno dal gennaio 2004 al dicembre 2009: ci sono informazioni sull’uccisione di civili da parte di militari statunitensi e britannici, come pure sul sostegno ai Talibani da parte di Pakistan e Iran. In ottobre, l’attenzione si sposta di nuovo sull’Iraq: 300mila documenti dell’esercito statunitense attestano inadempienze nel perseguire abusi, violenze, torture perpetrati durante il conflitto. C’è traccia, tra l’altro, della morte di oltre 15.000 civili in circostanze non chiare.

L’eco di quelle rivelazioni non s’è ancora spenta che esplode, a fine novembre, il ‘cablegate’: oltre 250 mila documenti trasmessi da 274 sedi diplomatiche americane in tutto il mondo al Dipartimento di Stato a Washington. Messaggi e rapporti vanno dal 1966 al febbraio 2010: più della metà, quasi 134 mila, non sono classificati, ma oltre 101 mila sono confidenziali e oltre 15 mila ‘segreti’ – nessuno, però, è ‘top secret’.

Per qualche giorno, l’attenzione è elevatissima. Ma è presto chiaro che quel materiale è più funzionale al gossip diplomatico che alle cause della democrazia e della trasparenza: ci sono valutazioni, spesso impietose, o superficiali, sul comportamento pubblico e privato di leader politici di mezzo Mondo (e l’Italia di Mr B. ben presente). Contro Wikileaks, partono attacchi informatici, azioni legali, iniziative legislative, perché le fughe di documenti compromettono la sicurezza nazionale americana e anche di singoli individui. Ma, alla fine, quella più imbarazzante per Assange è la denuncia per violenza carnale mossagli da due svedesi: è quell’accusa che lo espone al rischio di estradizione dalla Gran Bretagna e che lo induce a chiedere asilo all’Ecuador.

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