“Io penso che abbandonare l’acciaio sarebbe una sconfitta, bisogna mettere in equilibrio il lavoro e la salute. Nelle carte dei magistrati c’è il percorso. L’ambientalizzazione della fabbrica può essere fatta solo a impianti accesi”. Peraltro, “L’Ilva rispettava i limiti e si è adeguata alla legge regionale sulla diossina, ma l’Ilva è anche una metropoli che per 60 anni è stata un propagatore di veleni”.

LA POSIZIONE di Nichi Vendola sull’acciaieria di Taranto, com’è naturale per un uomo che rifiuta le facili semplificazioni, è un po’ complessa: hanno ragione i giudici che chiedono all’Ilva di non inquinare e prescrivono la chiusura della fabbrica, però hanno pure torto perché l’Ilva adesso rispetta i limiti e quindi la fabbrica deve rimanere aperta. Il governatore è confuso? No, più che altro si muove sul doppio binario su cui ha sempre viaggiato in questi anni: ufficialmente lui ha risolto la situazione, in pratica non può far finta che non esistano le perizie ordinate dalla magistratura che dimostrano che non è vero.

Basti vedere quanto lo stesso Vendola diceva in uno dei suoi videomessaggi nel dicembre del 2011, otto mesi fa: “Ho i dati degli ultimi rilevamenti dell’Arpa sulle emissioni di diossina e furani a Taranto: siamo a quota 0,2 nano-grammi per metro quadrato. Vorrei ricordare a tutti che nel 2005 l’Ilva sputava in atmosfera fino a 10 nano-grammi di veleni. Questo dato è straordinario, è una delle migliori buone pratiche che ci siano state a livello europeo”. Non che fosse la prima volta che il nostro parlava degli straordinari progressi di Taranto. Basta rileggere un paio di numeri della rivista della stessa Ilva, Il Ponte. Ecco cosa diceva Vendola in un’intervista del novembre 2010: “Gli investimenti dal punto di vista ambientale sono stati notevoli, sebbene rimanga ancora molto da fare. In moltissimi settori sono state applicate le migliori tecnologie disponibili, come previsto dalla legislazione europea, e a breve il cronoprogramma per l’ambientalizzazione completa dell’Ilva sarà attuato al 100%”. A maggio 2011, invece, fornì al periodico pagato dai Riva una dichiarazione contro la consultazione popolare promossa dai movimenti tarantini per la chiusura dello stabilimento: “Chiesi ad Emilio Riva, nel mio primo incontro con lui, se fosse credente, perché al centro della nostra conversazione ci sarebbe stato il diritto alla vita. Credo che dalla durezza di quei primi incontri sia nata la stima reciproca che c’è oggi. La stessa che mi ha fatto scendere in campo contro il referendum per la chiusura del ‘polmone produttivo’ della Puglia”. Sul polmone produttivo della Puglia poi sono arrivate le analisi della Procura, compresa quella che rileva livelli di diossina intollerabili, e i toni sono un po’ cambiati.

SOLO CHE NON solo di parole ha peccato Vendola, ma pure in opere e omissioni. La famosa legge sulla diossina del 2008 che ha risolto tutto secondo lui, per dire, prevede non controlli in continuo (“assolutamente indispensabili”, scrive Todisco nella sua ordinanza) ma sulla media aritmetica di rilevazioni discontinue e casuale. Per di più i numeri trionfali forniti dal governatore – ed è sempre il gip che lo sancisce – avvenivano andando a fare gli esami nel camino sbagliato.

ANCHE L’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) firmata da Vendola nell’agosto di un anno fa, all’ingrosso, consentiva il raddoppio della produzione, non prevedeva controlli in continuo, né la copertura del parco minerale da cui si alzano molte delle polveri che infestano Taranto . Festeggiò allora l’assessore all’Ambiente Nicastro: “Siamo riusciti a tenere insieme le ragioni dell’ecologia con quelle dell’economia e del diritto alla salute con il diritto al lavoro. Un passaggio storico”. Poi a marzo la giunta Vendola cambiò idea e chiese al ministro Clini di procedere al riesame dell’Aia. Se si volesse risalire al 2005, si potrebbe ricordare anche che, Provincia e Comune ritirarono la loro costituzione di parte civile nel processo che portò alla prima condanna dei Riva. Contestualmente firmarono un protocollo in cui la Regione si impegnava a stanziare 50 milioni per il risanamento del quartiere Tamburi e altri 25 milioni per il Mar Piccolo. Che ne è stato di quei soldi? C’è una certezza: a Taranto non li hanno visti.

Ci sono, infine, le omissioni, il cui peso si può apprezzare solo adesso che tutti parlano della mancanza di dati certi su cui basare un’analisi credibile. I dati non ci sono anche perché Vendola, pur avendone la competenza istituzionale, s’è sempre rifiutato di disporre un’indagine epidemiologica e pure di avviare il monitoraggio di sangue e urine nonostante gli sia stato chiesto più volte dai movimenti tarantini e da forze politiche dello stesso centrosinistra (i Verdi).

Finito? Quasi: il “Registro tumori” a Taranto è fermo al 2005, quindi sarà difficile stabilire il numero esatto dei morti per inquinamento. Fortuna che ci pensa Nichi via Facebook a spiegarci tutto: “Lo sguardo di chi governa deve pesare ciascuno dei beni da tutelare, deve custodire tutte le promesse di futuro , ma soprattutto deve sentire la responsabilità di evitare che vinca il caos, e che l’ardire utopico dei pensieri lunghi si pieghi alla disperazione di un presente immobile, quasi divorato dal suo passato”.

da Il Fatto Quotidiano del 15 agosto 2012

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