Con la decisione di abbandonare Il Fatto, credo che Luca Telese abbia compiuto una buona azione nei confronti del giornale, dando un personale apporto di chiarezza al suo profilo: “suo” del giornale, nel senso di emendarlo da una presenza e da un apporto oggettivamente contraddittori da ben prima della caduta di Berlusconi e dell’asserita gesuificazione di Grillo, e “suo” di Telese stesso, nel senso della coerenza con il suo percorso professionale e con la sua vocazione protagonistica.

Detto questo, mi pare che due degli argomenti “di carattere generale” indirizzati all’ex-giornalista del Fatto da Enzo Frenna, con nitidezza e onestà intellettuale – “Un giornale fa una sola cosa: informare” e “Un giornale non è una democrazia” – meritino di essere utilmente discussi.

“Un giornale fa una sola cosa: informare”. E’ certamente indebita la pretesa avanzata da Telese, per il quale, dopo la caduta di Berlusconi, Il Fatto avrebbe dovuto smetterla di “demolire” e passare a “costruire”, dato che “la mission di quel giornale si è esaurita. Non è passato dalla protesta alla proposta”. In realtà, difficilmente si potrebbe citare un altro esempio di compatta coerenza informativa quale quella che indubbiamente connota Il Fatto dalla sua nascita ad oggi e che evidentemente un personaggio come Telese non poteva condividere. Non a caso è proprio per lui che oggi “dobbiamo cambiare”. E lo rilevo io che sin dall’inizio dell’avventura di Padellaro e Travaglio ne ha rilevato – su articolo21.org e su infodem.it – la caratteristica fondamentale di quotidiano politico e di orientamento, cioè non meramente “informativo”, con soddisfazione dal punto di vista politico e criticamente dal punto di vista di osservatore del mondo dei quotidiani, prevalentemente politici e di orientamento in un paese storicamente privo di una solida e diffusa rete di quotidiani di informazione. E’ evidente che pubblicare le notizie delle malefatte della politica non è “demolire”, ma appare riduttivo e distraente distinguersi da Telese su questo terreno. Telese ha in testa un giornalismo dello stesso tipo, perciò forse si è all’inizio infilato nell’avventura del Fatto, e oggi ne esce per una ragione uguale e contraria: vuole fare un giornale di intervento, lo vuole fare lui e vuole decidere quando e quale malefatta pubblicare e quale no.

“Un giornale non è una democrazia”. Di primo acchito l’affermazione sembra ineccepibile: “Nei giornali c’è un direttore, un vicedirettore, i capiservizio, i cronisti. Se il responsabile di una sezione – ad esempio le pagine di Politica – vuole decidere la linea del giornale, allora è il caos”. Ma il giornale non è nemmeno un’azienda qualsiasi, ma investe in pieno questioni vitali per la democrazia. Non a caso ha una normativa particolare (un direttore responsabile e non un capo azienda). In base alle leggi e ai contratti, il padrone non può mettere piede in redazione e dovrebbe leggere il suo giornale solo quando è stampato e diffuso. Non è così? Certo che non è così, ma solo per l’inosservanza di leggi e contratto, e per l’ignavia della gran parte dei direttori, più interessati alla carriera che al mantenimento della schiena dritta col rischio di vedersi licenziato. Ma il direttore, che da un canto deve rispettare l’accordo iniziale sottoscritto col suo editore, dall’altro deve avere la fiducia della redazione e comportarsi come “primus inter pares”. Non è e non può essere un dittatore, anche per ottenere il meglio dai suoi collaboratori, per aggiungere al prodotto che in base alla propria sensibilità e capacità sarebbe in grado di confezionare le sensibilità e le capacità dei collaboratori. E’ chiaro che alla fine prevale la sua decisione ma il bravo direttore è colui che riesce ad allontanare quanto più è possibile la necessità dello scontro, a non imporsi a tutti i costi e a cambiare idea se convinto da uno qualsiasi dei suoi redattori. Ed è altrettanto chiaro, quando si arriva alla decisione finale del direttore, che spetta al collaboratore – vicedirettore, caposervizio o inviato o semplice redattore – starci o dimettersi. In definitiva come ha fatto Telese, da questo punto di vista non solo legittimamente ma encomiabilmente.

Se Telese dice, con molta schiettezza: “Non puoi continuare, a guerra finita, a mozzare le teste di cadaveri sul campo”, rivela che egli ha vissuto l’avventura al Fatto come se fosse una “guerra”, come se gli fosse stato chiesto di “mozzare le teste” (dei vivi, si intuisce). Ed è questa una estrema ma coerente declinazione del giornalismo d’intervento, che invece di costituire solo un momento del giornalismo nazionale lo ha quasi totalmente inglobato e sostituito. Sino all’estremismo dei Feltri. E del Telese che una guerra giornalistica di tipo etnico l’ha vissuta addirittura all’interno stesso del Fatto, “dove eravamo divisi tra Bosnia-Erzegovina e Croazia“.

Perciò non tirerei in ballo, nell’occasione, questioni di carattere generale relative alla funzione del giornalismo e al tasso di democraticità all’interno di un giornale. Perciò mi pare che Telese abbia fatto una buona azione, per se e per il Fatto.