E allora ti metti un sabato mattina davanti alla televisione, per provare a guardarla davvero, la diretta di questa benedetta parata, dopo anni in cui l’hai declassata a rumore di sottofondo festivo. Magari hai letto su “Repubblica” l’editoriale politicamente corretto con cui Miguel Gotor ci ha spiegato che Giorgio Napolitano ha fatto bene a confermarla e che noi progressisti dovremmo responsabilmente e sobriamente gioire di questi pennacchi. E magari sei più propenso a credere, come il ministro Fabrizio Barca (mica Piero Bernocchi dei Cobas), che quei soldati sarebbe stato meglio mandarli nei luoghi del terremoto. Magari sei solo curioso e intrigato, per una volta.

Eppure ci metti solo tre minuti a capire che la sfilata del 2 giugno non dovrebbe essere la bestia nera dei pacifisti irredimibili e dei residui antimilitaristi, ma il nemico numero uno degli stati maggiori. O meglio: la sfilata non è il giorno dell’esercito in grande spolvero, ma l’apogeo della sua ridicolizzazione. Non è la sua prova di forza ma una prova di noia, ha il ritmo piano di un metronomo tambureggiato per studenti di solfeggio somari, uccide la genialità artistica delle bande musicali in uniforme, con il veleno delle marcette da boyscout, uccide i ritmi della televisione con la sua ripetitività infinita, uccide le autorità imbalsamate in tribuna, i politici costretti a sorrisi di plastica e applausetti rituali, a parte quelli che non hanno nulla da perdere (anche fisionomicamente) come Schifani.

La cronaca Rai, poi, era terrificante: “Ecco la forestale! è specializzata nella repressione dei reati in materia ambientale e agroalimentare!”. Minchia. Oppure: “Ecco il saluto dei nostri vigili del fuoco: li chiamano angeli!”. Sfilano dunque, i malcapitati, con elmetti lucidi mai visti, stile Fahrenheit 451 di Truffaut. Mi viene in mente che io i vigili li ho amati in tutte le emergenze che ho raccontato, con le loro fasce catarifrangenti e le loro divise sporche. Il testo della cronaca tv, entusiasmante come un necrologio, ricalca alla lettera quello megafonato ai Fori imperiali. Fanno ridere gli ospiti civili, i “volontari del soccorso” vestiti da infermieri, e le povere infermiere vestite da pornosuore, a cui non viene concesso nemmeno un primo piano (forse – visti i precedenti – per evitare nuovi apprezzamenti di Berlusconi). I “volontari impegnati nella difesa nonviolenta e non armata” sembrano gelatai in t-shirt, l’inno di Mameli alla fine viene suonato senza solennità, e mio figlio annoiato corre via a cercare i suoi alieni. L’anno prossimo in studio a commentare chiamerei la Gialappa’s o due intellettuali pensosi, e se fossi il presidente al Quirinale convocherei gli organizzatori del Superbowl per rifare tutto da capo. Il punto è che la marzialità, senza la scintilla vitalistica e luminosamente feroce della guerra, è solo un ridicolo ballo in maschera. Questi più che guerrieri sembrano eunuchi. L’unica vera sfilata che racconti l’esercito come dovrebbe essere fatto è la sequenza iniziale di Apocalypse now. “Nonostante questo anno così difficile – dice il cinegiornale Rai – molta gente non ha voluto fare mancare il suo sostegno e si è assiepata ai fori”. Ma che state dicendo? Senza l’odore del Napalm di mattina presto, i gipponi, i pennacchi e i pizzardoni di Gianni Alemanno che gridano “Roma!” davanti alla tribuna sono solo folklore.

Il fatto Quotidiano, 3 giugno 2012

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