Tunisi, Atene, Parigi. Napoli, Milano, Palermo. Il filo è questo. In Europa, i popoli che vogliono disperatamente salvarsi dalla crisi. Intuendo che non è più la crisi di un governo o di una politica, ma proprio la crisi globale di un sistema. Davvero – pensa la gente comune – dobbiamo essere governati dalle banche, così alla cieca? Davvero “pensano loro a tutto”? Le domande di svolta della vecchia Europa. Nel 1789, nel Quarantotto. Senza soluzioni apparenti (non subito, almeno) ma con un’idea chiarissima, travolgente: “non più coi vecchi nobili, non più con loro”. “E’ una sommossa, direi”. “Non, sire, c’est una révolution”.

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Milano, Napoli, Palermo. Tre città italiane. Non stati di fantasia, non macroregioni. L’Italia, infatti, è una nazione di città – si è italiani per questo. Un popolo di antica cialtronaggine (fan presto a gabbarci ogni volta i Berlusconi, i Bossi, i Mussolini) ma d’altrettanto antica saggezza. L’Italia sa riflettere, messa alle strette. Sa usare i mezzi che trova. Non la protesta generica, il “tutti uguali” (che c’è pure peraltro: e ci mancherebbe) ma la grande arma dei popoli, la kratèia del dèmos: il voto.

Se si analizza adesso, a fase conclusa, lo scheletro delle tre elezioni si rimane sorpresi da un lato dal dilettantismo e superficialità delle “forze politiche” (il “terzo polo”, la “grande Padania”, il “meno male che c’è il Capo”, il “Consorte facci sognare”, e anche i vari Il Mio Partito – di Vendola, di Di Pietro, di Beppe Grillo, di Fini…) ; e dall’altro dalla maturità degli elettori, italiani “apolitici” e qualunquisti” napoletani.

A Napoli, non scheda bianca o protesto generico ma disciplinata convergenza sul candidato democratico e civile, e non demagogico, un magistrato. A Milano, ritorno senza mezzi termini alla Sinistra socialdemocratica (nel Dna di ogni grande e civile città europea), ma una sinistra non inciucista e “alla moda”, non dalemata.

A Palermo, dopo tre mesi di buffe chiacchiere dei “politici” (“vogliamo un Renzi anche noi” – “parliamo di cose nuove, siamo modenni!” – “un euro e il candidato lo scegli tu!”) Il popolo brutalmente ha risposto: “Qui, o mafia o antimafia. Viva Orlando!”.

Al militante sessantenne, udendo le voci eccitate dei ragazzi che gli davano le percentuali al telefoto, veniva in mente un vecchio striscione di vent’anni fa, in una facoltà occupata di Roma: “Fieri di essere siciliani”; quello degli studenti della Pantera, il movimento nato a Palermo che incendiò nel ’93 tutta Italia. E gli si inumidivano gli occhi, al vecchio coglione.

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Problemi da risolvere ce ne sono tanti. Ma sono i problemi del costruire, non della rassegnazione. Ci sono fascisti ad Atene (per non dire in Francia). Ma sono minoritari, sotto controllo. Teniamoli d’occhio, e non facciamoci incantare dagli allarmi in mala fede di chi ha tollerato per vent’anni i fascisti Bossi, Maroni e La Russa. Il pericolo fascista per noi non sta Atene: sta a Verona, dove l’amico dei naziskin Tosi ha vinto le elezioni; sta nei miliardari che rispondono alla Bastiglia facendo crollare le Borse; sta in quel paesino della Brianza dove un sindaco del Pd caccia i bambini poveri dalle scuole, e ancora non è stato espulso con disonore.

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Non contro i partiti. Ma neanche coi partiti. Usando con abilità i partiti, come a Napoli, come a Milano, come a Palermo, ma essendo capaci di dare al momento opportuno – come De Magistris, come Pisapia, come Orlando – la zampata decisiva. Non sulla strada rozza e povera, e parassitaria, di un Grillo ma su quella forte e vincente di un Nenni, di un Berlinguer, di un Sandro Pertini.

Altro che antipolitica. Ad Atene, in questo momento, in giacca ma senza cravatta, sale i gradini del palazzo di governo il leader di Democrazia Proletaria. A Parigi si canta in piazza, ed è maggio.

A Palermo, il partito dell’antimafia torna attraversando le piazze dove vent’anni fa piangemmo Falcone e Borsellino. Torna alla testa di un popolo che vuole sopravvivere e vivere, e che non ha dimenticato.

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