Lo immagino alla scrivania con la sua lettera 22, mentre le dita colpiscono velocissime i tasti, regalando alla pagina bianca un’anima.

Lo trovo lì, sulla poltrona, mentre i suoi pensieri si agitano in un’irrequieta fucina di idee. Roboante ed al contempo elegante: così me lo figuro.

Posso solo immaginarlo perché non ho avuto il piacere di conoscerlo: a volte il tempo è tiranno e non mi ha concesso questo onore.

Mi ha concesso però di poter muovere i primi passi da giornalista nel suo paese natale e mi ha concesso anche di poter fare un viaggio nel suo mondo, visitando le stanze presso la Fondazione Montanelli Bassi.

L’emozione che ho provato è stata indescrivibile e da allora ho preso coscienza della grande fortuna che ho avuto a nascere qui.

Come Indro stesso racconta, il senso di colpa di aver lasciato il paese natale e di aver scelto un’altra vita lo tormentavano in sogno.

Inevitabilmente mi chiedo cosa sarebbe successo se lui fosse rimasto a Fucecchio.

E’ sciocco chiederselo: il vero giornalista non mette radici, è leggero ed impalpabile, lascia che tutto gli scivoli addosso perché sa che la stasi ed il legame costituiscono il tarlo della professione.

Si contano sulle dita di una mano i giornalisti che sono degni di essere chiamati tali, mentre una buona parte cade nella trappola e si avvicina ad un modus operandi che è più vicino a quello della meretrice o del cantastorie.

Il giornalista è altro, e Indro Montanelli ci ha lasciato questo insegnamento.

Ci ha lasciato anche un ultimo prezioso editoriale sul Giornale, un editoriale che costituisce il vessillo dell’indipendenza del giornalista. Posso soltanto provare a pensare al dolore nel

vedere la propria creatura, partorita con fatica ed impegno, denaturata, schiava del potere.

Non riesco ad immaginare l’indignazione e l’amarezza di dover lasciare l’unico luogo per cui forse persino lui sarebbe stato disposto a mettere radici, l’unica cosa che gli apparteneva davvero.

Così Indro, incapace di piegarsi e di abbassare la testa, allarmato dalle catene in procinto di ingabbiarlo, ha avuto il coraggio di dire “io non ci sto”. Potremmo dire che sia così oggi? Quanti giornalisti hanno la temerarietà ed al contempo l’onestà intellettuale di affermare “io non ci sto”?

L’informazione non merita un simile affronto, eppure la nostra storia ci dimostra quanti abusi e quante menzogne sono state celate dal cosiddetto quarto potere.

Occorre ricordarsi ogni tanto di quell’ultimo articolo, fare proprio l’exemplum di Montanelli e far sedere sulla poltrona d’onore l’unico vero padrone: il lettore.

Johara Camilletti