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I ricchi che si lamentano per il rincaro del caviale

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Strana gente, i ricchi d’Italia. Li vedi, in mare, d’estate, posteggiati a tre metri dalla spiaggia, con certi motoscafi così grossi che il tender di servizio, in confronto, sembra una barchetta per bambini, invece tiene 12 posti. Li vedi nei ristoranti di lusso, gli unici che la crisi non ha svuotato. Li vedi nei saloni delle loro case, con i filippini in guanti bianchi e la Maserati in garage.

Ostentano uno stile di vita votato al superfluo appariscente, eppure si sentono sempre poveri. Borbottano perché la colf fa la cresta sulla spesa, perché i lavoratori costano il doppio del salario che prendono, perché la segretaria è rimasta incinta e tocca prenderne un’altra e quella disonesta di una gravida non si può neanche buttarla fuori.

Abbassano la voce, le mogli, fino a un mormorio confidenziale e si dichiarano preoccupate per il futuro dei figli, indignate per l’aumento del prezzo del caviale beluga. È come se non sapessero rinunciare a intonare con gli altri il grande mantra dei proletarizzati. Pur di non sentirsi in pochi non dichiarano quello che guadagnano. Mai, neanche per vantarsi. Benestanti sfondati, pagano meno tasse dei loro dipendenti sfigati. Eppure ad allineare i simboli del culto del Dio Danaro non rinunciano. Si direbbe che, come certi mariti fedifraghi, hanno voglia di essere beccati. Diamogli soddisfazione.

Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2012

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