Quella del pallone è un’azienda in perdita ovunque. Dopo i dati relativi alla situazione debitoria di Spagna e Regno Unito, infatti, arrivano anche quelli sulla situazione italiana, e sono tutt’altro che positivi. Secondo lo studio “Report Calcio 2012“, presentato dalla Figc in collaborazione con Arel e Pricewaterhouse Cooper, nella stagione 2010/2011 i club professionistici di Serie A si sono indebitati per 2,6 miliardi di euro. Dato in crescita del 14 per cento, visto che nella precedente stagione i club della massima serie avevano 300 milioni di euro di pendenze in meno.

Nel dettaglio, il 35 per cento dei debiti della Serie A è di natura finanziaria, il 21 per cento è verso enti di settore, il 16 per cento di tipo commerciale; di vario ordine, invece, il restante 28 per cento. Il prodotto calcio in Italia, quindi, stando ai dati di Report Calcio è in crollo verticale: i 107 club professionistici analizzati, infatti, sono in perdita per 489 milioni di euro nel campionato 2010/2011. Ottanta milioni in più della stagione precedente. Tra le squadre messe sotto la lente d’ingrandimento, sono soltanto 19 quelle che riescono a chiudere i bilanci con degli utili netti. Diciannove su centosette, meno del 20 per cento del totale: non un buon messaggio da inviare all’Uefa per quanto riguarda il fair play finanziario.

“Dati da fallimento – si rammarica il ministro dello Sport, Gnudi – che mettono a rischio gli investimenti di mecenati in questo sport e anche l’iscrizione di molte squadre ai campionati”. E in base a dati così negativi, non poteva che calare anche il valore della produzione del calcio professionistico: il ‘giocattolo’ produce due miliardi e mezzo di euro, l’1,2 per cento in meno rispetto all’immediato passato. E non serviva la sfera di cristallo neanche per comprendere che il mondo pallonaro sia quasi totalmente dipendente dal salvadanaio delle televisioni. In termini pratici, si potrebbe addirittura giocare senza curve e tifosi, visto che la mancanza di gente allo stadio non costituirebbe un grave danno. I diritti televisivi, infatti, incidono sui ricavi dei club professionistici italiani per il 55 per cento nella sola Serie A e per il 16,7 per cento in B. C’è poco da meravigliarsi, dunque, se le assemblee di Lega per la spartizione degli introiti derivanti dalle tv si trasformino in una vera a propria trincea.

Dallo stadio, invece, arriva solo il 10 per cento dei ricavi totali, 4,4 per cento in meno del campionato precedente: ci guadagna un po’ di più chi ha accesso alle coppe europee. La Champions League, infatti, fa registrare percentuali di riempimento degli impianti pari al 67,7 per cento. Non è stato affatto redditizio, dunque, farsi fregare dalla Germania il posto utile per portare quattro squadre nella massima competizione europea. Per il fisco, il calcio italiano vale 1 miliardo di euro: l’85 per cento (875 milioni di euro) deriva dai contributi previdenziali ed erariali delle società professionistiche. Ci sarebbe da riflettere però sul restante 15 per cento: 155 milioni di euro che arrivano al fisco grazie al gettito erariale relativo alle commesse sulle gare di Serie A, Serie B e delle due divisioni di Lega Pro.

Leggendo lo studio “Report Calcio 2012” non ci dovrebbero essere dubbi: investire nel calcio non è un buon affare. I ricavi medi di una società della massima serie sono pari a poco più di 105 milioni, mentre i costi arrivano a 115. Anche per la Serie B il gioco non vale la candela: un campionato frutta alle società 15 milioni di euro in media, a fronte di una spesa di quasi 20 milioni. L’unico dato positivo o quasi derivante dall’analisi della Figc è quello relativo alla diminuzione della spesa: la scorsa stagione è stata l’unica in cui la crescita dei costi ha subito un rallentamento rispetto al passato (+1,5 per cento contro il +6,8 e +6,4 per cento dei campionati precedenti). Si mettano l’anima in pace i tifosi che sognano Cristiano Ronaldo o Messi: sognare è deleterio per i bilanci.

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