Lo scorso anno balbettava, quest’anno è senza parole. Dopo il sovrano dislessico de Il discorso del Re, il divo muto di Hazanavicius ha fatto incetta di Oscar: cinque premi tra cui i principali (film, regia, attore protagonista), oltre ai costumi e alla colonna sonora di Ludovic Bource. Che, senza citarlo, ha inserito nelle musiche del film il tema di La donna che visse due volte provocando le ire persino di Kim Novak. Ma tant’è: dal successo a Cannes, quando Jean Dujardin vinse come miglior interprete, al trionfo a Los Angeles, l’inarrestabile corsa di The Artist – preso sotto l’ala potentissima della distribuzione Weinstein – in nove mesi ha tagliato il traguardo.

L’84 esima edizione degli Academy Awards, per il secondo anno consecutivo, premia inoltre un film, un regista e un attore non americani. Lo scorso anno, appunto, fu la volta del britannico Il discorso del Re che incoronò la direzione di Tom Hooper e l’interpretazione di Colin Firth. Nel 2012 è la volta dei francesi. Tanto che Sarkozy, in piena campagna elettorale, non ha mancato di sottolineare che la politica del suo governo ha aiutato l’impresa. Come lo scorso anno, poi, c’è un grande sconfitto: nel 2011 fu The social network di Fincher, gelido film sul fondatore di Facebook e sull’alienazione affettiva; nel 2012 è Hugo Cabret di Scorsese, che di nomination ne aveva collezionate 11 (una in più di The Artist), ma ha vinto solo tre premi tecnici (fotografia, sonoro e scenografia). Tra questi, c’è l’unico Oscar tricolore a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, che hanno ricostruito la Parigi anni Trenta per il regista italo-americano.

I due scenografi, al terzo Oscar (The Aviator e Sweeney Todd), hanno dedicato il riconoscimento “all’Italia e a Martin”. Che però non deve stare simpatico agli oltre 6 mila votanti dell’Academy (al 70% uomini, bianchi e over 60), che finora gli hanno assegnato solo un risarcitorio riconoscimento per The departed nel 2007. Quest’anno, alla sua riflessione sulla modernità del cinema, hanno preferito l’inchino nostalgico di un europeo a Hollywood, tanto per chiarire la centralità degli Usa. Poca soddisfazione anche per Payne e il suo Paradiso amaro (miglior sceneggiatura non originale) e per il sottovalutato Moneyball che non ha vinto nulla, pur essendo un film scritto splendidamente. David Fincher, in realtà, è lo sconfitto anche del 2012 ma fin dalle candidature, poiché l’ottimo Uomini che odiano le donne – che meritava una segnalazione magari al posto di The help o di War horse – è stato completamente snobbato. Il film di Fincher ha conquistato solo il premio per il miglior montaggio, sottraendolo all’immarcescibile Thelma Schoonmaker, che per il lavoro in 3 D di Hugo Cabret avrebbe meritato il quarto Oscar della sua grandiosa carriera (gli altri li ha vinti per Toro scatenato, The aviator, The departed).

Chi invece ha sollevato la terza statuetta della vita è un’altra lady di ferro: Meryl Streep. La sua mimesi perfetta con la Thatcher ha sbaragliato la concorrenza e trasformato la 17 esima candidatura in premio. Accecati dalla somiglianza, i giurati non hanno visto l’ottima Glenn Close (cinque candidature e mai un risultato) di Albert Nobbs e la bravissima Rooney Mara, la Lisbeth Salander di Fincher.

Felicità anche in Iran per l’Oscar al film straniero andato a Una separazione di Farhadi. Teheran ha ribaltato il riconoscimento a un film non tenero con il regime affermando di aver sconfitto Israele, visto che uno dei titoli concorrenti era Footnote, dell’israeliano Cedar. Contenti loro. Di certo, compreso il sacrosanto premio a Una separazione, questa edizione non ha brillato per sorprese. Per i bookmaker, la vittoria di The Artist era data a 1, 05: ovvero scontata. Ma l’edizione non ha brillato neppure per coraggio, che pure in tempi recenti (nel 2010 con The hurt locker della Bigelow e anche nel 2008 con Non è un paese per vecchi dei Coen), gli Oscar avevano dimostrato. Forse mancava un grande titolo unanimemente riconosciuto. Ma è difficile non vedere la differenza cinematografica tra uno dei migliori Scorsese di sempre e il grazioso film francese che, con lo stratagemma del silenzio, si è accattivato le simpatie di tutti parendo più originale di quanto fosse. La cerimonia si è svolta senza imprevisti: dopo le “polemiche” Sacha Baron Cohen si è presentato travestito da Gheddafi, la Jolie scosciata, JLo con vasta scollatura sulla schiena e, tolta una parolaccia pronunciata da Dujardin (cazzo), tutti sono stati lieti, come si conviene.

Ma una caduta di stile c’è stata: nel ricordare i “cari estinti” dell’anno, sono stati omaggiati Lumet, Liz Taylor, Whitney Houston e persino Steve Jobs. Ma non Angelopoulos, né Erland Josephson. E se il regista greco è morto alcune settimane fa, e forse a Los Angeles hanno la memoria corta, uno degli attori preferiti di Bergman (Scene da un matrimonio) è morto domenica, il giorno della cerimonia. Un vero peccato, non ricordare uno dei volti del cinema europeo. Ma forse il vecchio continente piace di più quando omaggia le stelle (e le strisce) americane.

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